"Das ist genial!" mi aveva detto M.H., usando l'espressione tipica che riserva alle opere che gli sono piaciute in maniera particolare. Si riferiva a Mein Name sei Gantenbein (Il mio nome sia: Gantenbein) di Max Frisch, uno dei massimi scrittori svizzeri del ventesimo secolo. Io avevo già letto Homo Faber, anni fa, ai tempi dell'università, e non mi era parso granché. Forse ero troppo giovane io, chissà, ma mi era parso eccessivamente "costruito", in cui la narrazione era subordinata alla dimostrazione di una tesi, il che rendeva il romanzo il pretesto per un esercizio di Zivilisationskritik. Gantenbein l'ho affrontato, invece, con minori pregiudizi. Da quanto avevo letto il nucleo della storia mi sembrava interessante: "un uomo ha fatto un'esperienza, adesso cerca la storia della sua esperienza". Oltre all'idea della costruzione a posteriori della propria esperienza, che non esiste in quanto tale ma in quanto viene narrata e dunque interpretata, c'erano anche altri motivi che, in teoria, dovevano rendermi questo romanzo "appetibile": la faccenda delle identità multiple, l'invenzione della propria personalità, la finzione dell'io. Una roba un po' pirandelliana, insomma. Il risultato, almeno per me, è stato piuttosto deludente e se non ho abbandonato il libro prima della fine è stato solo per una sorta di autodisciplina che mi sono imposto. Sì, sì, so che il lettore ha il diritto di mollare un libro che non gli piace - e infatti di solito lo faccio senza remore -, ma in questo caso ogni tanto m'imbattevo in qualche pagina che mi piaceva o m'incuriosiva. Il problema era che più che piacermi per motivi squisitamente narrativi - la descrizione di un episodio o la rappresentazione di un personaggio - erano le riflessioni contenute in queste pagine a interessarmi. Insomma, me le godevo come se stessi leggendo un minisaggio all'interno del romanzo, ma a questo punto sarebbe bastato distillarle per ricavarne qualche aforisma e buttar via tutto il resto. Nella sua macchina narrativa Frisch getta una serie di personaggi, probabilmente varie declinazioni dell'io narrante, e li segue in diverse situazioni, per lo più ipotetiche, senza obbedire a un ordine cronologico degli eventi narrati. I singoli piani narrativi sbocciano spesso dalla semplice frase: "m'immagino che...". Per esempio quello che farebbe un uomo - il Gantenbein del titolo - che fingesse di essere cieco e vivesse una storia d'amore con l'attrice Lila. Con Lila e Gantenbein, poi, entrano in relazione anche gli altri personaggi maschili del romanzo: Enderlin - che a tratti s'identifica con l'io narrante - e Svoboda. In ogni caso, anche stavolta ho avuto l'impressione di trovarmi davanti un libro molto, troppo cerebrale, a tratti persino cervellotico. Più che un romanzo, insomma, è una specie di gioco combinatorio, freddo e intellettuale. Non ce l'ho fatta ad apprezzarlo - e così, dopo due tentativi andati male, chiudo qui la mia esperienza con Max Frisch.
Io però un ultimo tentativo con il "Wilhelm Tell für die Schule" e con "Diensbüchlein" lo farei. Tanto sono brevi e si leggono d'un fiato. Il tanto decantato "Andorra" invece mi sembra patire dello stesso difetto da te rilevato: troppo cerebrale.
Posted by: alessandro | 26/05/2009 at 02:45
No, no, basta, la vita è troppo breve per perdersi dietro a cose che non si vogliono leggere, anche se sono di grandi autori :D
Posted by: stefano | 26/05/2009 at 10:16