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22:00 in Appunti e riflessioni | Permalink | Comments (5)
E' morto Nantas Salvalaggio. A me piace ricordarlo così, in un momento di grande fulgore.
18:55 in Irritazioni, disgusti, idiosincrasie | Permalink | Comments (0)
17:22 in Due giri intorno al mio ombelico, Germanica | Permalink | Comments (3)
Sul solito sito di incontri gay, dove ormai mi capita più che altro di incontrare gente che già conosco o che addirittura legge questo blog, vedo una faccia che mi sembra di conoscere. Anzi, ne sono certo: lo riconosco soprattutto da una fotografia in cui ha gli occhiali. In realtà non mi sarei nemmeno accorto che c'era se non fosse stato lui a guardare il mio profilo. Allora io, che sono moderno, l'ho "taggato" con l'iconcina "ma noi non ci siamo già visti?", giusto per stimolare la sua curiosità e per capire se lui mi aveva guardato perché mi aveva riconosciuto. Alla fine abbiamo "chiacchierato" per un po'. Questo bel fanciullo - avevo ragione - l'avevo visto perché lavorava in un altro ufficio, di un altro ramo, della stessa azienda in cui lavoro io. Un ramo con cui normalmente non ho contatti professionali, aggiungo, e per questo motivo lo conoscevo solo di vista. Gli ho raccontato che di tanto in tanto lo intercettavo in mensa o al bar o nei corridoi interni. E che, in sostanza, gli sbavavo dietro, guardandolo con concupiscenza da vecchio porco arrapato. Già che c'ero e siccome anche lui pareva in vena di lasciarsi adulare, ho premuto sull'acceleratore dicendo che era carinissimo, lo splendore dei miei occhi e che rallegrava le mie giornate grigie ogni volta che lo vedevo. In ogni caso, sorprendendomi, lui mi ha detto di non essersi mai accorto dei miei sguardi lascivi e di non essere mai scivolato sulla mia bava. Ha detto anche che non gli sembrava che nessuno, in quest'azienda, lo guardasse con desiderio, al che io ho rincarato la dose dicendogli che mi pareva impossibile, che qui devono essere tutti ciechi o privi di gusto. Comunque sia, mi sono consolato: non è vero che sono così svergognato, non è vero che mi si legge in fronte, per usare una sineddoche, una perenne voglia di cazzo. Tutta la faccenda, però, mi ha ringalluzzito perché ho pensato in primo luogo che noi - noi finocchi, intendo - siamo dappertutto. Lo so, razionalmente, ma poi me ne dimentico, a livello subconscio: forse perché ho inconsapevolmente assorbito l'idea omofoba per cui i gay sarebbero una specie a parte. In secondo luogo perché ho capito che tutto sommato il mio "gaydar" - il radar di riconoscimento di altri gay - funziona. E io che credevo di no: in questo caso ho sempre il sospetto di scambiare la mia attrazione per un segnale che l'altro è gay quando magari non lo è affatto.
Come è finita? Lui non lavora più nella mia stessa azienda. Stava facendo solo uno stage. Adesso è in un'altra azienda dove può impiegare al meglio quello per cui ha studiato - un corso di fuffa applicata in un'università privata milanese. Ci siamo scambiati le mail, so il suo nome e cognome e così via. L'ultima volta che l'ho visto sul sito gli ho mandato un saluto che è rimasto senza risposta: chissà che cosa aveva provocato la loquacità della prima sera. O forse, un'altra volta, devo sbavare di più.
12:33 in Due giri intorno al mio ombelico, La gaia scienza | Permalink | Comments (4)
[A vostro rischio e pericolo: spoiler come se piovesse]
Ieri sera io e lui siamo andati a vedere Antichrist, il nuovo film di quel buontempone di Lars Von Trier. Nel prologo vediamo un uomo (Willem Defoe) e una donna (Charlotte Gainsbourg) che ci stanno dando dentro di brutto e, distratti dall'amplesso, non si accorgono che il loro figlioletto apre la finestra e si butta di sotto, spiaccicandosi sul selciato. Lei ha una crisi di nervi, ma lui, che è uno psichiatra, resta tanto impassibile quanto lei diventa isterica e decide di curarla personalmente. La porta nella casetta nel bosco - l'Eden, quando si dice un nome vagamente allusivo, eh? - dove tutto è iniziato mentre lei scriveva la sua tesi sulla persecuzione delle donne nei secoli. E dove lei era già un po' fuori di cucuzza, come dimostra il fatto che si ostinava a mettere al contrario le scarpe al bambino. Lì lui spera di scoprire che cosa la angoscia e la impaurisce di più. Invece lei va sempre più fuori di testa e ne combina d'ogni, ma lui resta pensoso e paziente e cerca di farla tornare in sé. Quando però alla fine lei, dopo avergli letteralmente rotto il cazzo, gli trivella uno stinco e gli pianta dentro una mola da macina avvitandola ben salda, lui perde finalmente la pazienza e la strangola.
Questo il succo di Antichrist, che è una emerita stronzata, ma che è irritante soprattutto per il suo essere così pretenzioso. I primi tre quarti d'ora li ho subìti accasciato nella poltrona, cercando di vincere un'insopprimibile cecagna - mi si comprenda: mi ero alzato alle sette di mattina -, finché a risvegliarmi ci ha pensato la trovata, divertentissima, della volpe che nel bosco guata fisso Defoe e gli intima: "Il caos regna!". In quel momento non sono riuscito a trattenere una risata - e non sono stato l'unico in sala. Il resto del film l'ho guadato lanciando occhiate inquiete all'orologio e pensando che intanto nella sala accanto se la stavano spassando con Zac Efron e il suo 17 Again.
Antichrist vorrebbe essere densamente simbolico, ma tutto il suo simbolismo affonda nel ridicolo. Un po' perché è fine a se stesso ed esteriore e non si traduce in una macchina narrativa ben oliata, ma anche perché non propone assolutamente nulla di nuovo. I due arrivano nel boschetto isolato e, toh, Lars Von Trier ci fa sapere che la natura è maligna, che è lì che si esprime il demonio, e robe di questo tenore. Mai sentite prima, se non da una sfilza lunga così di filosofi e poeti dall'antichità fino a oggi. Tutto il resto - la persecuzione delle donne frutto della misoginia, la misoginia interiorizzata dalla protagonista che la rende, a sua volta, simile all'immagine negativa e paranoica che delle donne danno coloro che le odiano - è talmente vago e fumoso da offrire il destro a qualsiasi ghiribizzo interpretatorio da parte degli spettatori, come infatti abbiamo fatto noi usciti dal cinema, con un gelato e una granita in mano dall'altra parte della strada. Che cosa vogliono dire le donne senza volto che nell'epilogo invadono il boschetto e vanno verso il protagonista? Ma è ovvio: sono l'eterno femminino che vuole saccagnare di botte il maschio per aver perpetrato un ulteriore crimine contro la donna. Oppure: è l'eterno femminino che, grato, è stato finalmente liberato dalla condanna della misoginia, perché lui, uccidendo lei, ha ucciso anche la misoginia. You name it, you have it: il significante è così vago da consentire ogni volo pindarico.
In qualche recensione che ho consultato in rete stamattina ho letto degli elogi a proposito della parte iniziale, il prologo in bianco e nero e al rallentatore, in cui lui e lei scopano e il bambino si butta dalla finestra. L'unica cosa bella è l'aria Lascia ch'io pianga, ed è di Handel e non di Lars Von Trier. In effetti, questa scena, con i movimenti rallentati, la neve che cade fuori dalla finestra, il bambino che si sveglia, i due che si accoppiano sudati contro la lavatrice che, slosh slosh slosh, sta facendo il bucato, più che numinosa mi è parsa kitsch. Kitsch artistico, ma pur sempre kitsch. Oltretutto mi veniva anche da ridere perché, malgrado fosse evidente che i due stavano trombando, il regista ha voluto a tutti i costi metterlo ben in evidenza. Dopo pochi minuti l'obiettivo si concentra su un enorme pene che entra in una vagina, un'immagine che riempie tutto lo schermo. Forse Von Trier era preoccupato che non ci accorgessimo di quello che i due stavano facendo? Un'inutile chiosa, insomma, come se il regista fosse lì, con il dito puntato, a dire: "Vedete? Stanno trombando, stanno chia-van-do". Grazie, non ce ne saremmo accorti altrimenti. Questa cosa, però, pare che abbia scosso o scandalizzato qualche spettatore o qualche recensore. Insieme con le scene splatter della seconda parte: l'eiaculata al sangue e l'infibulazione casalinga praticata con due forbicioni dalla protagonista. Uh, che enfant terrible, questo Lars Von Trier, quanti frisson, wow, come ci fa sentire trasgressivi: ne ha combinata un'altra delle sue, che birbantello. A me veniva solo da sbadigliare e pensavo che in realtà stava usando i soliti improbabili effettacci di tanti horror che fanno onestamente il loro mestiere di film horror, assurdità comprese: lui che resta bello vispo con una mola infilata in una gamba e lei che zampetta giuliva dopo essersi sforbiciata via il clitoride.
Ve lo consiglio solo se avete qualche peccato grave da scontare. In ogni caso, quando sarete usciti dal cinema, qualsiasi cosa vi capiti vi sembrerà più bella di quello che avrete appena visto.
14:38 in Visti, letti, ascoltati | Permalink | Comments (7)
Mi vergogno di essere italiano - sento dire spesso. Io no, non mi vergogno di essere italiano, perché per me questo è un fatto puramente accessorio, non un elemento sostanziale nella definizione che io do di me stesso. Persino la mia lingua madre - l'unico aspetto che io tendo a identificare in qualche modo come una patria - diventa un elemento ininfluente se penso che, nel caso in cui mi fossi trasferito all'estero, dopo un po' avrei padroneggiato la lingua del luogo e mi ci sarei adagiato come in una seconda pelle. Che io sia "italiano", dunque, me lo dice il mio passaporto, ma delle porcate che a più riprese commettono molti miei connazionali, in alto e in basso sulla scala del potere, io non sono responsabile, quindi non mi ci identifico tanto da avvertirle come parte di un me stesso per il quale provare vergogna. Tutt'al più provo schifo, questo sì, per il fatto di vivere qui e ora, in mezzo ai miei contemporanei, ma ognuno si tenga le sue vergogne e le sue colpe. Io ho solo vergogne personali - e tanto mi basta -, ma nessuna vergogna collettiva, niente per cui chiedere scusa al posto di qualcun altro.
15:20 in Irritazioni, disgusti, idiosincrasie | Permalink | Comments (3)
"Das ist genial!" mi aveva detto M.H., usando l'espressione tipica che riserva alle opere che gli sono piaciute in maniera particolare. Si riferiva a Mein Name sei Gantenbein (Il mio nome sia: Gantenbein) di Max Frisch, uno dei massimi scrittori svizzeri del ventesimo secolo. Io avevo già letto Homo Faber, anni fa, ai tempi dell'università, e non mi era parso granché. Forse ero troppo giovane io, chissà, ma mi era parso eccessivamente "costruito", in cui la narrazione era subordinata alla dimostrazione di una tesi, il che rendeva il romanzo il pretesto per un esercizio di Zivilisationskritik. Gantenbein l'ho affrontato, invece, con minori pregiudizi. Da quanto avevo letto il nucleo della storia mi sembrava interessante: "un uomo ha fatto un'esperienza, adesso cerca la storia della sua esperienza". Oltre all'idea della costruzione a posteriori della propria esperienza, che non esiste in quanto tale ma in quanto viene narrata e dunque interpretata, c'erano anche altri motivi che, in teoria, dovevano rendermi questo romanzo "appetibile": la faccenda delle identità multiple, l'invenzione della propria personalità, la finzione dell'io. Una roba un po' pirandelliana, insomma. Il risultato, almeno per me, è stato piuttosto deludente e se non ho abbandonato il libro prima della fine è stato solo per una sorta di autodisciplina che mi sono imposto. Sì, sì, so che il lettore ha il diritto di mollare un libro che non gli piace - e infatti di solito lo faccio senza remore -, ma in questo caso ogni tanto m'imbattevo in qualche pagina che mi piaceva o m'incuriosiva. Il problema era che più che piacermi per motivi squisitamente narrativi - la descrizione di un episodio o la rappresentazione di un personaggio - erano le riflessioni contenute in queste pagine a interessarmi. Insomma, me le godevo come se stessi leggendo un minisaggio all'interno del romanzo, ma a questo punto sarebbe bastato distillarle per ricavarne qualche aforisma e buttar via tutto il resto. Nella sua macchina narrativa Frisch getta una serie di personaggi, probabilmente varie declinazioni dell'io narrante, e li segue in diverse situazioni, per lo più ipotetiche, senza obbedire a un ordine cronologico degli eventi narrati. I singoli piani narrativi sbocciano spesso dalla semplice frase: "m'immagino che...". Per esempio quello che farebbe un uomo - il Gantenbein del titolo - che fingesse di essere cieco e vivesse una storia d'amore con l'attrice Lila. Con Lila e Gantenbein, poi, entrano in relazione anche gli altri personaggi maschili del romanzo: Enderlin - che a tratti s'identifica con l'io narrante - e Svoboda. In ogni caso, anche stavolta ho avuto l'impressione di trovarmi davanti un libro molto, troppo cerebrale, a tratti persino cervellotico. Più che un romanzo, insomma, è una specie di gioco combinatorio, freddo e intellettuale. Non ce l'ho fatta ad apprezzarlo - e così, dopo due tentativi andati male, chiudo qui la mia esperienza con Max Frisch.
18:46 in Germanica, Visti, letti, ascoltati | Permalink | Comments (2)
Il traffico, sempre e ovunque, ormai a qualsiasi ora del giorno e, spesso, anche della notte. Persino nelle strade in cui meno lo si aspetterebbe, per non parlare poi di quelle principali, ormai ridotte ad autostrade ad alto scorrimento. Le automobili che non si fermano mai alle strisce pedonali. Quelle parcheggiate in doppia o tripla fila, fino in mezzo alla strada. Con le quattro frecce, con la nonna con il figlio con il cane dentro o con lo stesso autista in attesa, come a segnalare che tanto ripartono subito. Già, perché così, invece, non intralciano la circolazione. Furgoncini che sostano in seconda fila, per scaricare le merci a mezzogiorno. Il traffico che non diminuisce nemmeno quando ci sono quaranta gradi all'ombra. Le macchine che imbottigliano le vie e che, quando ci guardi dentro, non trasportano nessun altro tranne chi le guida. E spesso lo portano solo al bar dietro l'angolo per fare l'aperitivo. Macchine parcheggiate sul marciapiede, parcheggiate sulle poche piste ciclabili, parcheggiate ovunque. E poi, è una mia impressione o in questa città, negli ultimi tempi, è aumentato in maniera esponenziale il numero di Suv in circolazione? Ai proprietari di Suv farei pagare una sovrattassa. Non perché inquinano di più, ma perché occupano più spazio delle altre automobili. Se vuoi più spazio pubblico, paga di più. E perché poi girare in Suv a Milano, quali ostacoli e quali asperità bisogna mai superare? E' come voler navigare in transatlantico in un ruscello. E poi questa gente insopportabile: tutti ossessionati dall'apparenza e dalla bella figura, sembra che stiano sempre su un palcoscenico a recitare una parte. E' il segno distintivo della milanesità avere, incorporato, l'occhio altrui che ti guarda e ti valuta. Non escono per divertirsi o rilassarsi, ma per esibire se stessi in uno sfiancante gioco sociale. Mai nessuno che se ne freghi e che vada in giro come capita, accettando magari la propria sciatteria. Qualche sera fa ho fatto in bicicletta un lungo percorso dai dintorni di piazza Maciachini fino a piazza San Simpliciano, tagliando per l'Isola, e davanti a tutti i locali a cui sono passato non ho visto altro che fighetti e facce di merda, baùscia e sboroni, tutto il campionario della movida milanese, insomma. Fino a raggiungere l'apoteosi in corso Como e fuori dal Radetzky in largo La Foppa. Quanto mi manca la rilassata sciatteria di una Berlino, dove il fighettume è confinato in spazi ben delimitati e non tracima dappertutto, come a Milano, dove uno su due che incontri lavora nel mondo della moda, anche quando questo significa che fa la commessa all'Upim, e dove tutti sono splendidi anche quando a casa sono alla canna del gas. Per riabituarmi a tutto questo mi occorrono settimane, ma per dimenticare tutto mi bastano poche ore.
13:53 in I tentacoli della metropoli | Permalink | Comments (3)
Qualcuno ha acceso la televisione e io, inerme, sono rimasto esposto al Tg1. L'ho trovato uno spettacolo davvero vomitevole. L'antefatto: Berlusconi ha dichiarato che il parlamento è inutile, è d'intralcio, e basterebbero cento deputati per fare le leggi. E se magari sono tutti suoi cloni, tanto meglio. Dopo il putiferio che ne è derivato, Berlusconi ha smentito le sue stesse parole, dicendo di non aver mai detto quello che aveva detto. Tutto secondo programma. E ora arriviamo al Tg1 di oggi, il cui carattere "informativo" è consistito in uno schieramento di leccaculo del presidente del consiglio che, fissando con occhio suadente l'obiettivo, hanno spiegato che occorre una riforma del parlamento, il superamento del bicameralismo perfetto, il rafforzamento dei poteri del premier, tutto con toni di massima ragionevolezza. Come a dire: voi tonti che cosa avevate capito? Fare informazione è dunque questo, oggi, in Italia: una inquadratura via l'altra con i bei faccioni di Italo Fellatio e di Gaetano Piccioncello che spiegano a chi guarda com'è che davvero va il mondo e che non è vero quel che gli spettatori hanno visto, ma quello che gli raccontano loro. Uno spettacolo vomitevole, appunto.
14:43 in Irritazioni, disgusti, idiosincrasie | Permalink | Comments (3)