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12:05 in Due giri intorno al mio ombelico | Permalink | Comments (2)
Con una risoluzione parlamente il Belgio - uno stato sovrano, a differenza dell'Italia - ha risposto alle dichiarazioni che Ratzinger fece in occasione della sua tournée africana a proposito dell'uso del preservativo con cui "non si vince l'Aids". Il Vaticano se ne è avuto a male: sono cose che capitano e credo che in Belgio se ne faranno una ragione, ma non si stracceranno le vesti né si presenteranno a Canossa cospargendosi il capo di cenere. Quello che mi colpisce è la reazione vaticana in cui si parla di "intimidazione". Va bene che la madrelingua di questa gente è il latino e non l'italiano, ma qualcuno dovrebbe spiegare loro che le parole hanno un significato. Leggo, sullo Zingarelli, il significato della parola intimidazione: "Atto, parola, minaccia per impaurire qc. o impedire q.c.". Ora io dubito che in Vaticano si lordino le mutande quando sentono parlare i belgi, così come non mi risulta che, quando i prelati aprono bocca, le loro parole non trovino una serie di zerbini più che ben disposti a riportarle su paginate e paginate di quotidiani, con la dovuta deferenza. Se un'opinione o una critica sono già un'intimidazione, basta vietare per legge ogni opposizione al Vaticano e farla finita così. Tanto per intenderci, cari porporati, un'intimidazione sarebbe questa: "Alla prossima cazzata di Benedetto XVI gli spariamo in fronte, così sta zitto per sempre". Ora è chiara la differenza?
18:35 in Irritazioni, disgusti, idiosincrasie | Permalink | Comments (1)
"Partoriscono a cavallo di una tomba, il giorno splende un istante, ed è subito notte"
Samuel Beckett, Aspettando Godot (traduzione di Carlo Fruttero)
Godot, ormai, è diventato una figura mitica e "aspettare Godot" una figura retorica. Aspettando Godot di Samuel Beckett è indubbiamente una delle pièce teatrali del Novecento che hanno avuto impatto maggiore e più duraturo. Letta per la prima volta più di vent'anni fa, vista sul palcoscenico, in inglese, quando andavo ancora a scuola, sono andato ieri sera al Teatro Libero a vederne la messinscena di Gianfranco Pedullà e della compagnia Teatro Popolare dell'Arte con una certa apprensione. Diffidente e un po' carico di aspettative. Da giovani è facile trovare nelle opere di Beckett nutrimento per il proprio esagerato pessimismo cosmico: quello che si trascura è il suo umorismo asciutto, che sembra ricalcare la secchezza della sua silhouette dinoccolata e il suo volto scavato da aquila intelligente. A una lettura tragica si sostituisce quindi una visione più disincantata e, forse per questo, più attenta al testo in sé e a certi dettagli un tempo trascurati.
Questa rappresentazione, in particolare, esaltava l'elemento clownesco della pièce. I due protagonisti - Vladimiro (Didi) ed Estragone (Gogo) -, impersonati da Marco Natalucci e Nicola Rignanese - sembrano, in certi momenti, muoversi nell'arena di un circo, con gesti e movimenti molto accentuati: si veda per esempio la scena in cui si passano di mano in mano i tre cappelli. Nel loro modo di interagire mi pareva persino di rintracciare l'eco di famose coppie comiche del cinema, come per esempio i vecchi Stan Laurel e Oliver Hardy, compresa la loro tradizionale divisione dei ruoli: il comico vero e proprio e la spalla, l'idiota e quello all'apparenza più saggio e misurato, che però si rivela stupido quanto il primo. Credo che questa eco non sarebbe dispiaciuta allo stesso Beckett e mi domando persino se non fosse persino nelle sue intenzioni quando scrisse l'opera. Sicuramente il senso del grottesco è un elemento centrale della pièce e i suoi affondi lasciano spesso senza fiato: personalmente ho trovato angosciante la scena in cui Lucky viene costretto a "pensare", come se il "pensare" fosse un'attività curiosa da esibire in una fiera. Il lungo delirio prodotto dal servo di Pozzo - presentato qui in una versione abbreviata rispetto al testo pubblicato - è davvero una delle più radicali dichiarazioni di sfiducia nei confronti del pensiero "astratto", di cui viene irrisa l'inanità. E' come se qui Beckett fosse il famoso bambino che mostra l'indecente nudità del re: l'uomo che s'illude di elevarsi al di sopra della propria miseria razionalizzando i propri fallimenti e rivestendoli di grandi concetti. Talvolta, però, mi è parso che i due protagonisti fossero troppo sguaiati o che la loro recitazione fosse un po' sopra le righe, ma forse è solo questione di gusti personali miei. In ogni caso meglio così di una lettura esclusivamente tragica delle battute beckettiane. A sottolineare la dinamicità del tutto c'era poi una colonna sonora composta da rulli di tamburi che accompagnava certe scene salienti come, per esempio, l'ingresso di Pozzo e Lucky.
A parte queste considerazioni, guardando il modo in cui Didi e Gogo interagivano tra di loro ho pensato che oltre a tutto quello che si è detto su Aspettando Godot si potrebbe persino aggiungere che loro due rappresentino una coppia gay di lunga durata, ritratta nella sua banale normalità. L'idea magari è campata in aria, ma è divertente: le smancerie, le effusioni, le liti, i battibecchi, il fatto che loro stessi dicano di essere insieme da cinquant'anni ormai e che non riescano a immaginarsi l'uno senza l'altro, tutto spinge a dare anche questa interpretazione. Certo, si può anche ridurre tutto a una spiegazione simbolica e dire che i due personaggi incarnano le due metà di un essere umano - il logos e l'emozione? -, ma a me non dispiace neanche darne una lettura più sbarazzina. Allo stesso modo Pozzo e Lucky incarnerebbero invece il tipico rapporto sadomasochistico che unisce certe coppie, indissolubilmente legate dal dolore, inflitto e subito.
Come tutti sanno - non credo di fare opera di spoileraggio al riguardo - Godot alla fine non arriva. Non si sa nemmeno chi o che cosa sia questo Godot, il cui arrivo viene di volta in volta rimandato al giorno successivo, con un annuncio che ogni sera dimentica l'annuncio identico del giorno precedente. Forse proprio per questo chiunque può vedere in Godot quello che preferisce, proiettandovi il personalissimo oggetto della sua attesa che non si realizza mai, tanto da trasformarlo nell'essenza stessa dell'assenza (e non a caso Beckett avrebbe scritto, anni dopo, un testo intitolato Sans/Lessness, cioè "Senza"). Infatti dei due elementi che formano il titolo - Aspettando e Godot - non è il secondo a essere quello più importante, ma il primo: irrilevante è l'oggetto dell'attesa, che potrebbe essere qualsiasi cosa, ma qualificante è il fatto dell'attesa, l'attesa in sé, l'esistenza che si fa attesa e che si proietta oltre il momento dato, come se potesse diventare più se stessa andando oltre se stessa, salvo poi non vedere mai mantenuta la propria promessa e finire in un vicolo cieco in cui non si può né attendere né smettere di attendere.
18:05 in Visti, letti, ascoltati | Permalink | Comments (1)
"Da adolescente, quando ho detto ai miei genitori che volevo essere scrittore, hanno temuto che fossi omosessuale, un incubo per la cultura maschilista lusitana".
António Lobo Antunes, intervistato da L'Espresso
12:04 in Le parole degli altri | Permalink | Comments (0)
R.S., di ritorno da Parigi, mi manda una fotografia che ha scattato al cimitero di Montmartre e che riproduco qui con il suo permesso. Si tratta della tomba di Jean-Daniel Cadinot, morto esattamente un anno fa, un uomo che nella sua vita ha fatto un sacco di bene e che proprio per questo meriterebbe una santificazione. A questa lapide manca solo un angelo che sfoggi una prepotente erezione: sarebbe stato il giusto tributo alla sua arte.
11:15 in Il corpo altrove | Permalink | Comments (8)
Chi fa il traduttore lo sa: a volte non ti viene la parola giusta. Ora non è che uno ci sta a pensare su in continuazione, ma la parola incriminata nella lingua d'origine si "deposita" al di sotto degli altri pensieri e delle cure quotidiane ed è come se si pensasse da sola mentre uno sta facendo altro. Se hai fortuna, al momento giusto emerge da sé una soluzione, magari non ottimale ma almeno accettabile rispetto alla prima che ti era venuta in mente. Io mi sono accorto che nel mio caso la "parola giusta" ha la tendenza a fare capolino mentre sto pedalando: con l'abominevole libro che sto traducendo ora - e sì: vorrei ancora menarla, l'autrice: più forte che mai, così almeno avrebbe finalmente di che lagnarsi davvero - mi è già capitato due volte. Arrivato a casa scrivo su un foglio di carta le parole, per paura di dimenticarmele. Premuroso. Spiraglio. Ecco che cosa dovrebbero insegnare nelle scuole di traduzione e nelle facoltà di lingue: usate la bicicletta. E buona fortuna.
14:07 in Due giri intorno al mio ombelico | Permalink | Comments (4)
I leghisti mi hanno sempre fatto cagare, sin dalla loro prima comparsa sulla scena politica. Ingenuo com'ero - e come in parte sono rimasto - il disgusto che provavo nei loro confronti era in primo luogo antropologico, oltre che estetico. Mi sembravano degli extraterrestri, anche se rappresentavano un tipo umano, quello insubrico, che conoscevo fin troppo bene, dato che ce l'avevo attorno tutti i giorni quando anch'io abitavo in quella città di G., confinante con i luoghi natii di menti come Umberto Bossi o Matteo Speroni. La politica fatta con la canottiera macchiata di sugo non mi ha mai attratto granché, così come trovavo abbastanza repellente l'invocazione machista del cazzo duro, soprattutto vedendo a chi appartenevano quelle millantate erezioni. Può anche darsi che ci siano stati, in un passato che ormai mi pare remoto, degli esponenti politici della lega che si sottraevano a questi cliché, degli individui per bene, fin troppo compassati per far parte di quella compagine - penso per esempio allo scomparso (in senso politico) Raimondo Fassa, che fu sindaco di Varese nel paleolitico -, ma poi anche loro sono finiti nel nulla: non urlavano abbastanza, non sono riusciti a sollevare troppo la testa e devono essere stati travolti dalla marea montante di merda che ha inondato gli ultimi dieci, quindici anni. La lega d'antan si vantava di essere vicina alle esigenze del popolo, di dire pane al pane vino al vino e rifuggire dalle vane logomachie dei politici di professione. Se però voglio sentire discorsi da bar sport vado al bar sport. Ma oggi che lo sbracamento è diventato generale e che la cifra stilistica della lega è ormai moneta corrente, l'originalità leghista è andata a farsi benedire. Si sono perfettamente integrati - o forse il panorama politico e sociale che si è disintegrato, abbassandosi al livello della lega.
A tutto questo pensavo vedendo come, posati i loro culi sugli scranni parlamentari, ormai i legaioli pensano al loro particulare. Partiti con frizzi e lazzi, al ritmo di Roma ladrona, la lega non perdona, sono calati come dei barbari su Roma e, avendo scoperto a loro volta quanto è piacevole "rubare", non si peritano di nasconderlo più di tanto. Non esiste, come dichiaravano i più ruspanti tra di loro, un tipo terrone - neghittoso e approfittatore - contrapposto a un tipo settentrionale-ariano, ma c'è invece un unico fenotipo diffuso, l'italiota, che si manifesta nelle sue diverse varianti: è molto più ciò che, sotto la crosta superficiale, ci unisce rispetto a quel che ci divide. Ecco quindi che la lega dimostra tutta la sua italianità fottendosene allegramente degli sperperi se questi sperperi possono andare a suo vantaggio e alimentare la sua macchina politica. In questa chiave, e solo in questa, si può leggere il veto posto all'accorpamento del referendum abrogativo dell'infame "Porcellum" - non a caso un parto di una delle loro menti più fini, Calderoli - con le elezioni amministrative ed europee. Non so quante centinaia di milioni di euro si potrebbero risparmiare tenendo tutte le consultazioni nello stesso giorno, ma è evidente che la lega preferisce buttare questo denaro pubblico dalla finestra piuttosto che vedere messa a repentaglio la propria esistenza: meglio far fallire un referendum per la mancanza di quorum che affrontarlo direttamente. Del resto, lo dice pure Berlusconi: "sono polemiche che non mi toccano", sono "fuori luogo", perché - suppongo - siamo un paese orgoglioso e benestante, possiamo permetterci di buttare cento, duecento, trecento milioni di euro nel cesso e tirare la catena. L'importante è soddisfare la lega.
Allo stesso modo, gli stessi leghisti sono strenui oppositori dell'abolizione di quella voragine mangiasoldi che sono le Province. Abolirle - come qualcuno propone - consentirebbe risparmi consistenti, oltre che l'eliminazione di rendite parassitarie. Per il "federalismo" sono sufficienti regioni, comuni e qualche area metropolitana. Invece no, siccome la creazione di certe prebende porta voti - e quindi denaro - a chi le ha promosse, ecco che la lega resiste, resiste e resiste. Anzi, ci mette del suo: mica ha rinunciato alla nascita della nuova provincia di Monza-Brianza, una roccaforte del leghismo. Altro che padani: sono italiani, italianissimi, come tutti.
11:52 in Incursioni nella polis | Permalink | Comments (1)
Non voglio fare il D'Orrico della situazione, ma in libreria oggi ho visto che e/o ha appena tradotto e pubblicato questo romanzo di Christoph Hein, con il titolo, neanche troppo orribile, di Una donna senza sogni (ma io avrei conservato l'originale, trasformandolo in Paula Trousseau). Compratelo, leggetelo, perché è un libro bellissimo. Fine dell'intermezzo pubblicitario.
17:36 in Germanica | Permalink | Comments (0)
12:07 in Germanica, La gaia scienza, Le parole degli altri | Permalink | Comments (3)
Leggere un saggio come Tra uomini. La dinamica omosessuale nella psiche maschile dello psicologo junghiano svizzero Peter Schellenbaum è un po' come percorrere un tunnel buio in cui, di tanto in tanto, qualche faro isolato illumina il percorso. Si ha la sensazione di non vedere nulla e poi, d'un tratto, ecco che un fascio di luce rischiara qualche dettaglio interessante. E' comunque un libro che ho preso in mano con una certa diffidenza, non del tutto dissipatasi neanche durante la lettura, come sempre diffido dei testi che trattano la "psicologia del profondo". Nel migliore dei casi ho la sensazione di non capirci nulla, altrimenti prevale l'impressione di leggere una serie di sciocchezze campate per aria. Poi, per l'appunto, arrivano delle osservazioni che sembrano scritte proprio per me, come tagliate su misura: sono quegli sprazzi di luce cui accennavo poc'anzi.
Non tento neanche di riassumere le tesi centrali del saggio di Schellenbaum né di esporre il concetto chiave di comunicazione speculare: non vorrei tradire troppo il suo pensiero e, inoltre, il gergo e la simbologia junghiani non mi sono sufficientemente familiari. Schellenbaum distingue comunque tra omosessualità integrata e omosessualità fissata - quest'ultima a sua volta si manifesta o in omosessualità fissata e omosessualità dell'immagine-guida -, a seconda della percezione della "personalità maschile del Sé" e alla capacità di vederla rispecchiata nel proprio compagno. Rispecchiamento non è fusione, però: anzi, rispecchiarsi nell'altro significa mantenere intatta la propria individualità, mentre la fusione è il processo contrario. Nel caso di omosessualità non integrata vengono messi in atto una serie di meccanismi, ben descritti da Schellenbaum, per rimediare a una mancanza avvertita dall'individuo. Naturalmente i confini tra l'una e l'altra sono liquidi. E, inutile a specificarsi, come esiste una "omosessualità fissata", così esiste anche una eterosessualità "fissata" (o coatta). Per citare lo stesso Schellenbaum: "Nell'omosessualità fissata narcisisticamente l'altro è vissuto in sostituzione della propria percezione di sé in quanto maschio, mentre nell'eterosessualità fissata narcisisticamente la donna è vissuta in sostituzione dell'interiorizzazione dello specchio materno".
Schellenbaum parla spesso del ruolo della madre e del padre nello sviluppo di certe dinamiche - e al riguardo certe pagine (altrettanti lampi di riconoscimento) mi hanno dato qualche brivido per la schiena e una dose in più di inquietudine prima di dormire, facendomi appunto dubitare che queste fossero solo "sciocchezze". Naturalmente non c'è nulla di "poviesco" in tutto ciò, perché sin dall'introduzione l'autore sottolinea come l'omosessualità sia un fatto del tutto normale: "Per gli omosessuali integrazione non vuol dire rinuncia all'omosessualità a favore di una esistenza eterosessuale, bensì risolvere un'omosessualità fissata o, che è lo stesso, un'omosessualità indotta da coazione". Infatti, alla fine dell'introduzione, Schellenbaum scrive: "Anche nei nostri Paesi l'amore omosessuale deve poter diventare una presenza ovvia. Coppie di uomini o di donne devono poter vivere apertamente il loro amore ovunque, come fanno le coppie di sesso opposto: per strada, nei parchi, in banca, nei caffè, in ogni discoteca, insomma dove tutte le persone che si amano vanno volentieri".
In tutto questo non mi addentro e lascio valutare a chi vorrà leggersi Tra uomini. Mi voglio però concentrare su un capitolo - una sorta di excursus intitolato Aids: l'insana tentazione - in cui, a mio giudizio, Schellenbaum tocca il tasto giusto. L'autore qui analizza la relazione tra omofobia e diffusione dell'Aids (ricordo che la prima edizione del libro è stata pubblicata nel 1991), mettendo in luce soprattutto la valenza simbolica della malattia a livello di psicologia profonda e scoperchiando i meccanismi azionati, sia negli eterosessuali che negli omosessuali, sani o già colpiti dal virus. Qual è dunque questa relazione? Per il "maschio eterosessuale coatto", a livello profondo sussiste ancora un legame tra "femminile" e "morte": "Eva è portatrice del peccato. La morte fece la sua comparsa nel mondo attraverso la donna perché la donna è peccato. Oggi nessun uomo illuminato sosterrebbe razionalmente questa testi, eppure essa determina, sul piano irrazionale, la sensibilità e il comportamento di numerosissime persone". Prosegue quindi Schellenbaum: "Nell'epoca dell'Aids l'omosessuale si presta in modo eccellente a portare su di sé la proiezione dell'identità di donna-peccato-morte". Per l'omofobo inconsapevole l'omosessuale è colui che rifiuta la virilità comportandosi come una donna e, in quanto tale, richiama quella morte che gli altri cercano a tutti i costi di rimuovere. Dietro l'omofobia, quindi, si nasconde la tanatofobia: "Dietro l'aggressività che nuovamente divampa contro gli omosessuali [...] è appostata la paura ossessiva della morte. La tanatofobia è la paura, consolidata attraverso dei meccanismi di difesa, di morire naturalmente nel flusso della vita, giorno dopo giorno. [...] La logica inconscia [...]: poiché gli omosessuali sono portatori potenziali o già reali della morte, devono essere esclusi dalla società o messi in quarantena a scopo profilattico. [...] Se l'operazione riesce, la morte è al bando. Noi non dobbiamo più fare i conti con la nostra paura di vivere. Non ci viene più ricordato che vivere significa in realtà morire un po' ogni giorno". Viceversa - e questa è una vera intuizione di Schellenbaum - negli "omosessuali non infetti" alla tanatofobia degli eterosessuali corrisponde la tanatofilia, "ossia l'insana tentazione non di evitare la morte, ma di andare incontro alla 'fusione con la morte'". Le parole che Schellenbaum usa per spiegare questo fatto sono una radiografia abbastanza precisa del paesaggio psichico di molti gay: "Nessun altro fatto psicologico mi ha così impressionato in questi ultimi anni. Esso costituisce lo sfondo delle ben note conseguenze psichiche dell'epidemia di Aids fra gli omosessuali: diminuzione dell'autostima, di per sé già labile, sensi di colpa, inibizione o rimozione del desiderio sessuale, che portano all'impotenza o alla mancanza d'interesse sessuale o all'improvvisa esplosione di fame sessuale morbosa, alla rabbia impotente nei confronti dei genitori e della società. Tutte queste conseguenze dell'epidemia di Aids vengono prodotte da una subliminale tanatofilia". E' come cioè se volessero "precorrere questa situazione estrema" perché in un certo senso si sentono già votati alla morte. Negli "omosessuali infetti" la tentazione è ancora più forte: "addossarsi la colpa morale dell'Aids e identificarsi, per espiarla, così intimamente con la mortale malattia non ancora esplosa, da esperire ogni piacere della vita come un darsi alla morte, amante segreta che ovunque li accompagna". L'autore evidenzia però un aspetto ovvio della faccenda, cioè che tutta questa costellazione psichica non nasce con il diffondersi dell'Aids, ma tutt'al più si rafforza o si riattiva: "L'insana tentazione nei confronti della tanatofobia e della tanatofilia, dunque della difesa fobica della morte attraverso l'individuazione di capri espiatori da un lato, e dell'innamoramento nei confronti della morte come oramai unica fonte di vita e di piacere dall'altro, è più antica dell'Aids. Ed è tanto più virulenta, quanto più una società rimuove la morte". Ecco perché, oggi come oggi, la migliore reazione da parte dei gay - più facile a dirsi che a farsi - è quella di riaffermare la vita, nonostante tutto.
15:57 in Germanica, La gaia scienza, Visti, letti, ascoltati | Permalink | Comments (3)