La notizia di questi giorni, che apprendo dalla Stampa e da Repubblica, è che il primo ministro britannico Gordon Brown, sostenuto dal suo ministro del tesoro Alistair Darling, ha deciso di nazionalizzare la Northern Rock, una banca finita sull'orlo del crac "grazie" ai mutui subprime. Commenta La Stampa, in apertura di articolo: "La vecchia regola è confermata: privatizzazione dei profitti, socializzazione delle perdite". In realtà, specificano entrambi i quotidiani, si tratta di una "nazionalizzazione provvisoria", perché la banca verrà gestita "come una banca privata", cioè secondo criteri di redditività - o così almeno si auspica -, e verrà rivenduta ai privati (anche se non si sa ancora quando) nel momento in cui ricomincerà a fare soldi.
Questi sono i dati di fatto. Io, invece, vorrei solo fare un paio di considerazioni. Al momento della decisione, uno dei principali azionisti - tale John Wood - ha protestato, minacciando di portare il governo in tribunale: "Avvieremo tutte le azioni necessarie a difendere il valore dei nostri soldi". Una reazione che trovo francamente ridicola, considerando la grave crisi di liquidità in cui si trova la banca: fino a poco tempo fa i clienti facevano la coda per ritirare i soldi, temendo il peggio. Il signor Wood dovrebbe, probabilmente, solo essere contento e grato del fatto che qualcuno gli compra e gli paga le azioni di una società che, altrimenti, sarebbe destinata a fallire: in quel caso i suoi soldi li perderebbe tutti. Eppure questo, secondo le regole di quel liberismo che - quando tutto va bene - loro stessi decantano, sarebbe giusto e sacrosanto: la banca non ha saputo "stare sul mercato", dunque, sciò, raus. E che i tanti signori Wood perdano le loro azioni: è il rischio d'impresa, darling. Ma capisco che c'è chi voglia avere salvi capra e cavoli.
In realtà c'è un altro aspetto più interessante e meno evidente che mi colpisce della faccenda. Lo desumo da questa frase: "Non appena la banca ricomincerà a fare soldi verrà restituita ai privati". Sembra quasi che qui si mettano le mani avanti, come per garantire che non si commetterà il peccato mortale: tenere una società in mano pubblica, dopo averla salvata dal dissesto e dal fallimento certo. Perché, invece, non pensare a una soluzione diversa, che scardinerebbe la prassi ormai consolidata? Se, per una volta, una società pubblica dimostrasse di essere diventata redditizia, dopo che, in mano ai privati, era stata condotta al fallimento, questo significherebbe che non è di per sé il tipo di assetto proprietario a determinare se una società può funzionare o no, ma il modo in cui viene gestita. Ma se a renderla di nuovo redditizia sarà la gestione pubblica, perché, allora, non socializzare i profitti e usarli per fare qualcosa che torni a vantaggio dei cittadini, invece di correre subito a riempire le tasche dei privati? In tutta l'operazione, infatti, è questo il vero pericolo: creare un precedente che mostrerebbe che, qualche volta, è possibile percorrere una via opposta. Invece di svendere i "gioielli di famiglia", ricomprarseli per farli fruttare. Per quella cosa, ormai così sputtanata, che è "il bene della collettività". Per una volta, si privatizzerebbero le perdite e si socializzerebbero i profitti.
Comments