A Maria Angulema, discendente di nobili latifondisti decaduti, è morto il padre in seguito a un incidente stradale: non sapendo darsi pace decide di sacrificarsi e accompagnare, come dama di carità, i pellegrini a Lourdes. Là si propone di interrogare la statua della Madonna e, in questo modo, costringerla a rivelarle il perché dell'amaro destino toccato in sorte al genitore. Lourdes, romanzo d'esordio di Rosa Matteucci risalente al 1998, è il racconto di questo viaggio, ma è - allo stesso tempo - anche il pretesto per una raffigurazione caricaturale del microcosmo che, con il treno dei pellegrini (una "mandria ingovernata") in partenza dall'Umbria, va in cerca del miracolo nella cittadina francese. Il romanzo di Rosa Matteucci ha molte qualità e un grosso difetto. La qualità principale è senz'altro nello sguardo spietato - a tratti crudele - con cui dipinge i suoi personaggi. E' evidente che questo sguardo è, di riflesso, quello della protagonista che, per prima, viene descritta in modo quasi mostruoso. L'autrice ha indubbiamente il dono del grottesco che riesce a maneggiare e a suscitare con poche parole. Per esempio, Maria Angulema deve indossare un'uniforme da dama di carità, con caratteristiche ben precise, come per esempio una cuffia in testa. La cuffia diventa immediatamente, ai suoi stessi occhi, una "orrida scuffia" che la fa assomigliare a una "cuoca demente", cosicché l'immagine dell' "orrida scuffia da cuoca demente" viene evocata in tutto il libro ogni volta che c'è da ricordare la tragica inadeguatezza della protagonista, di cui Matteucci arriva a dire: "Maria Angulema sembrava una comparsa di rincalzo in una versione hard-core della Monaca di Monza". Allo stesso modo funzionano le due scarpe destre da ginnastica che, comprate al mercato, puzzano di "topicida".
Questa caratterizzazione grottesca e iperrealistica vale anche per tutti gli altri personaggi del romanzo che, indistintamente, sono brutti, stupidi, mostruosi, molto più simili a bestie che non a esseri umani. Sembra di ravvisare un piacere crudele nel modo in cui l'autrice, dovendo descrivere un personaggio, decide sempre di rappresentarlo nel momento più basso della sua parabola narrativa ed esistenziale. C'è qualcosa di molto simile alla ferocia nel modo in cui Matteucci li introduce nella macchina narrativa, come se il suo sguardo si concentrasse su un dettaglio, lo amplificasse e lo ripetesse fino a farlo diventare l'orripilante centro intorno cui gravita tutta la persona. A questa icasticità corrisponde poi un gusto per un'onomastica anomala, che a me ha ricordato molto Aldo Busi (ma credo che questo sia l'unico punto di contatto tra i due autori): a parte Maria Angulema, ci sono l' "Ascenzia Pagnottini vedova Pellicciotti" che le presta la divisa; la Nazzarena e la Micchelina, pellegrine e "cugine diabetiche di Montecastrilli" - che l'autrice fa parlare in un italiano smozzicato e gutturale, pesantemente bistrattato dall'influsso del dialetto locale -; Mirella Cannuccia la "zoppetta di Massa Martana" chiamata anche "la struppia"; la giovane deficiente "Samantha col tiacca" con cui Maria condivide la stanza d'albergo e che la chiama "professorè"; la Liona "mangiatrice di viscere alla brace", simile a "uno gnomo maligno. Bassa, tozza, con il ventre sporgente, i tratti del viso duri, le labbra sottili, gli occhi gialli infossati"; la Rolanda di Morrano, "una tracagnotta con il rossetto sbavato e i baffi, i capelli castani corti bruciacchiati dalla permanente"; e infine ci sono le "cape" delle dame di carità che prendono subito Maria Angulema di mira e che assomigliano, più che a dame, a guardiane di un lager.
Come se non bastasse, Rosa Matteucci insiste molto sulla zona di confine tra l'orrido e il ridicolo anche quando racconta determinate situazioni in cui vengono coinvolti i pellegrini. La stessa devozione dei pellegrini è dipinta in modo più caricaturale che empatico: "Lì sotto [al santuario] nereggiava un'informe massa umana, un brulichio instancabile e perenne di insetti affaccendati" o ancora: "quel formicaio di vecchie rimbambite", "una pattuglia di cani malconci reduci da una di quelle marce sfiancanti dietro a una cagna in calore", "una pellegrina [...] in tutto simile a una pecora sarda". Notevole è anche l'attenzione riservata a tutto ciò che è materiale organico: spurghi, deiezioni varie, e soprattutto vomito traboccano dalle pagine del romanzo. Scorrendolo annoto frasi come: " [...] una poltiglia bollente di sugo di pomodoro che sembrava una pizza napoletana vomitata"; "avrebbe voluto [...] vomitare, ma qualcosa la trascinava verso il basso, in un buio denso e nauseabondo"; "Dalla bocca sbrindellata, con un labbro in su e uno in giù, coronata di saliva giallastra, rinsecchita e spumosa, si levava un lamento di gioia [...] sui pantaloni della tuta che portava fiorì una macchia diseguale, dai bordi incerti, giusto all'altezza dell'inguine"; "Quando Maria si chinò a raccattare la coperta Samantha col tiacca ci vomitò sopra con uno scroscio l'intero contenuto del suo stomaco"; "Un ometto secco [...] sacramentava sputando grumi di catarro"; "Maria Angulema non riuscì a rispondere se non con un cupo rutto all'aroma di cavolini di Brussella ripassati in besciamel"; "Maria [...] non trovò di meglio che sacrificare al sudicio, violento flusso che aveva già inzuppato le sue mutandine la maglietta di cotone che indossava sotto gli strati della divisa". Insomma la vita è ridotta alla sua fisicità e questa è, per lo più, una fisicità malata e disgustosa.
Fin qui tutto bene, anche se non credo che - malgrado l'indubbia abilità di scrittura dell'autrice - Lourdes ricordi, nello stile, Thomas Bernhard o W. G. Sebald, come (se non erro) dichiarano Fruttero e Lucentini sulla copertina dell'edizione tascabile (che non ho). Tutto sommato questo sguardo feroce sulla fisicità delle persone resta nei binari di una rappresentazione grottesca della realtà, senza mai raggiungere i toni volutamente parossistici di un Antonio Moresco. E il romanzo sarebbe perfettamente compiuto se si limitasse a dipingere un quadro di questo genere. Purtroppo, c'è il finale, che è il maggior difetto del libro, tanto da far nascere il sospetto che tutto quello che lo precede sia, sostanzialmente, un esercizio di stile fine a se stesso.
Che cosa succede alla fine dell' "avventura" di Maria Angulema a Lourdes? Accompagnando una malata alle piscine dove si immergono i pellegrini, viene anche a lei voglia di bagnarsi. In quel momento, ha - all'improvviso - una sorta di rivelazione: "Riaprì gli occhi, e fu investita da una fenomenale luce d'Amore. Su quel muro c'era l'Amore. Maria seppe che quello era il Signore Dio suo, l'Eterno venuto per lei in quel mattino sul muro, e nel contempo seppe che Lui era il Padre, ed era in ogni dove". Dopo questa improvvisa "conversione", Maria ringrazia per tutto il dolore subito, per la morte del padre e chiede "perdono al Padre per aver osato misurare il disegno divino con il metro della propria presuntuosa ignoranza e per aver vissuto come un'ingiustizia la sofferenza che Lui le aveva donato". Il tono, quindi, cambia radicalmente. Ma il problema non è, in sé, la rivelazione del divino: ogni autore può fare quel che vuole dei suoi personaggi e del suo materiale romanzesco - ed eventualmente anche raccontare, in modo plausibile, un percorso di avvicinamento alla fede o al sacro. Il problema è però che questo finale ha tutta l'aria di essere qualcosa di appiccicaticcio, qualcosa che non nasce per accumulo di indizi narrativi che, via via, portino a un certo mutamento. Il romanzo procede cioè in maniera monocorde e lineare - benché con grande estro linguistico ed evocativo - fino a questa improvvisa rottura finale: è come correre su un rettilineo e, d'un tratto, trovarsi davanti a uno strapiombo. Non c'è "necessità" in questa conclusione, così come - leggendolo a ritroso - nel personaggio di Maria Angulema non c'è sviluppo psicologico che la prepari. Mi è sembrato, quindi, un escamotage da cattivo romanziere che ha bisogno del botto finale perché altrimenti non saprebbe come finire. Se si fosse concluso prima avrebbe almeno avuto il valore di una fotografia spietata e grottesca: così, invece, chi legge avverte netta la frattura (anche linguistica) con il resto del romanzo. All'inventiva verbale con cui Matteucci descrive l'orrore e il ribrezzo si sostituisce un linguaggio anodino e abbastanza convenzionale che sembra preso di peso dai testi devozionali. A voler a tutti i costi veicolare un "messaggio", l'autrice riesce a distruggere con le proprie mani quanto di buono ha fatto nelle pagine precedenti.
Il mio timore è che, purtroppo, sia soprattutto questo finale - con il suo sfondamento verso l'irrazionale e verso il divino - ad averle fatto "meritare" la pubblicazione da Adelphi. A volte conta più il marchio del contenuto.