Non vado mai a letto prima delle due o delle tre di notte e se la mattina mi sveglio presto è comunque per lavorare in casa. Non mi capita quasi mai di usare i mezzi pubblici la mattina: se esco, mi sposto in bicicletta. Tranne l'altro giorno, quando alle sette scendo in metropolitana e prendo la linea verde, da Gioia a S. Ambrogio. Nel vagone mi guardo attorno e osservo le facce degli altri passeggeri, nel silenzio generale. Oltre che stanchi, mi sembrano tutti provati dalla vita, arenati sui sedili, in stato di semicoscienza, con la testa ciondoloni, i corpi infagottati in vestiti pesanti e di un uniforme colore scuro, chissà perché. Ma del resto nemmeno io sono vestito sgargiante: calzoni neri, giacca a vento blu scuro. Prende i mezzi pubblici - ho pensato - chi è costretto a prenderli. Manovali e operai, uomini e donne di fatica, molti stranieri provenienti da zone del mondo di cui noi quasi non immaginiamo l'esistenza o, se ce la immaginiamo, l'abbiamo rimossa dalle nostre mappe geografiche mentali. Non colgo nemmeno un sorriso, neanche per sbaglio. Sono tutti ingrugniti, quasi abbrutiti dalla pena di vivere. Dalla pena di vivere così. Uno spaccato sociale, quello della metropolitana milanese alle sette del mattino, che smentisce la lieta propaganda degli amministratori di questa città. Gli altri, invece - quelli che non sono lì -, non si degnano di prendere la metropolitana e, visto che possono, girano con la loro macchina. Come dargli torto? I vagoni della metropolitana sferragliano che sembrano vecchi treni merci, il boato dell'accelerazione nei tunnel sovrasta qualsiasi altro rumore: anche se qualcuno volesse parlare non potrebbe farlo perché nessuno lo sentirebbe. E la linea verde è cupa. Cupe sono le stazioni tutte uguali dai muri monocromaticamente marrone scuro e cupi i nomi in bianco sporco su sfondo verde. Al confronto persino la metropolitana di Bucarest mi sembra più allegra e vivace. Decisamente: penso che sì, forse ha ragione chi dice che questo paese è depresso, e basterebbe il metrò di Milano per averne conferma.
Fatto quello che devo fare, riprendo il metro per il viaggio di ritorno. Quando esco dalla stazione di Gioia sono le otto e un quarto di mattino. La strada è invasa dalle macchine: evidentemente è l'orario in cui la gente "normale" va in ufficio a lavorare. Risalgo verso largo De Benedetti, da cui partono, a raggiera, tre strade: via Rastelli, via Sassetti e via De Castillia. La prima e l'ultima solitamente non sono trafficate, mentre via Sassetti è diventata, specie la mattina, un'arteria ad alta densità di scorrimento. Con i lavori per la nuova linea del metro e la chiusura di parte di viale Zara e viale Marche, gran parte del traffico s'incanala qui. Cammino e mi viene voglia di fare una prova. Guardo con attenzione tutte le automobili che vengono verso di me: voglio vedere quante persone trasportano. Sono tutte con un unico passeggero, che è anche chi sta al volante. Solo su una vedo una donna e, dietro, un bambino in un seggiolino. In quel momento mi torna in mente un manifesto pubblicitario che ho visto al Museo dei Trasporti di Londra. Nella prima immagine c'è una strada completamente intasata di automobili. Nella seconda le macchine sono scomparse e le persone che le occupavano sono schierate in mezzo alla strada. Nella terza, e ultima, c'è un unico autobus sul quale viaggiano tutte quelle persone - e la strada è sgombra e più vivibile. A Milano - che, oltretutto, pare abbia una delle reti di trasporto pubblico più efficienti d'Italia - siamo ancora intrappolati nella prima immagine. Il mio viaggio mattutino e il mio ritorno me lo confermano: i disperati prendono metropolitana, autobus e tram; gli eletti hanno il dono dell'autonomia - anche a costo di procedere a dieci chilometri all'ora e tingere l'orizzonte del grigio marcio dei loro gas di scarico.