Grazie ai suoi buoni uffici, ieri siamo andati a vedere, con biglietto gratuito, la mostra di David LaChapelle che chiude il 6 gennaio a Palazzo Reale. Ne sono uscito molto soddisfatto, non soltanto per i nove euro risparmiati ma anche perché, per una volta, l'esposizione non consisteva di quattro fotografie striminzite in un paio di sale disadorne, ma in una cornucopia di immagini, tanto numerose che dopo un po' quasi ci siamo chiesti se e quando sarebbe finita. David LaChapelle lo conoscevo poco: era uno di quei nomi che entrano ed escono dal mio cervello senza che mi ci fossi mai soffermato più di tanto.
All'inizio ho avuto qualche perplessità su certi suoi lavori esposti, quelli che usano l'estetica della fotografia pubblicitaria di moda per sottolinearne la vacuità. L'ironia è indubbia, ma mi assaliva il dubbio che, alla fin fine, questo linguaggio pubblicitario è così potente da risultare comunque vincente al di sopra del messaggio, che viene fagocitato e assorbito fino a essere annullato. Lo spettatore "ricorda" l'estetica della moda, meno la critica a "una sorta di nevrosi compulsiva volta all'accumulo", come sta scritto nel volantino di presentazione. Superato questo primo momento, mi sono lasciato andare e me la sono goduta, con uno sguardo assolutamente ingenuo. La mostra è divisa per aree tematiche, ognuna delle quali si sviluppa in una o due sale. La prima, per esempio, è dedicata alle "distruzioni" e ai "disastri": qui le fotografie si nutrono del contrasto tra modelle elegantemente vestite (e non di rado dall'espressione algida o assente) e uno scenario di sfacelo urbano o suburbano. Guardando l'immagine di una modella che in piedi su una scrivania aziona una motosega, dico a D. che non sarebbe una cattiva idea da realizzare in ufficio.
Senza però ripercorrere le singole sale, vorrei segnalare quelle parti che più mi hanno colpito o incuriosito. Come quella intitolata "Ricordi americani", in cui LaChapelle ha manomesso e ritoccato fotografie americane degli anni settanta che raffigurano tristi interni in cui vari personaggi - quasi da "stereotipo" Usa - festeggiano a modo loro, per lo più mangiando junk food e bevendo alcolici. LaChapelle ha aggiunto elementi spiazzanti (armi, bandiere degli Stati Uniti, una fotografia del fungo atomico con la didascalia "This is love", magliette e tazzine con la scritta "Bush kills, drop Bush not bombs"), quasi a sottolineare l'intrinseca violenza associata alla volgarità delle immagini - una violenza che, quando deve sfogarsi, volentieri assume i toni del nazionalismo e del patriottismo. Affascinanti i ritratti di personaggi famosi, volutamente colti in atteggiamenti artificiosi: se la celebrità si ammanta anche di mito e di costruzione del personaggio - sembra suggerire LaChapelle -, allora tanto vale costruirlo fino in fondo. C'è tutto un jet set in queste immagini: Elton John, David Bowie, Madonna, Britney Spears, più una serie di personaggi ricorrenti, come la transessuale Amanda Lepore - con i suoi labbroni e le sue tettone esagerate - o come Pamela Anderson, di cui viene esposta la prorompente carnalità (e infatti l'artista ne mette in risalto soprattutto le doti più visibili: culo e tette).
La parte finale della mostra è riservata alla "spiritualità", comunque la si intenda. Dopo una serie di fotografie in cui un Cristo dall'aria da fotomodello (e con il piercing) appare in situazioni di insostenibile quotidianità si accede al "Diluvio", che "rappresenta il declino e la fine del consumismo". L'ultima immagine occupa tutta la parete di una sala e rappresenta proprio quello che il titolo suggerisce: un diluvio che si è inghiottito la terra e che ha lasciato tutti, letteralmente, nudi. Nell'acqua galleggiano alcuni simboli concreti della nostra smania di consumare: un'insegna di Gucci, una di Burger King. Ma non è tanto questa roboante raffigurazione di un moderno giudizio universale ad avermi colpito, ma è piuttosto un trittico intitolato "What will you wear when you're dead". In ognuna delle fotografie che lo compongono c'è una donna che muore in una situazione diversa: nella prima sembra spiaccicata su un marciapiede da un condizionatore caduto dall'alto, nella seconda in un incidente automobilistico, nella terza è una vecchia in un letto d'ospedale. I dettagli sono assolutamente realistici: la tazza di cartone con il caffè volata per terra, il cellulare uscito dalla borsa, il cagnolino attonito per la morte della padrona e via discorrendo. In ognuna di queste immagini dal corpo della morta si solleva una bella ragazza, vestita di bianco: l'anima pronta a spiccare il volo. E la ragazza è sempre la stessa, indipendentemente dall'età della morta. Inutile dire che - nel realismo della raffigurazione - quella che mi ha mandato i brividi lungo la spina dorsale è l'ultima: la vecchia nel letto d'ospedale, di cui LaChapelle coglie l'espressione stanca su un volto che finalmente si distende dopo tanto soffrire.
E infine arrivo a una constatazione un po' pedestre - oltre che lievemente polemica. La mostra di David LaChapelle è piena di allusioni sessuali di varia natura: a parte le fin troppo banali omosessualità (come, per esempio, in una finta "foto d'epoca" in bianco e nero in cui due marinai si baciano sulla bocca durante lo sbarco in Normandia) e lesbismo, ci sono riferimenti a varie parafilie (sono solo io a vedere un accenno di zoofilia nel cavallo che poggia la sua testa giusto sopra i seni di una modella?). Per non parlare poi dei numerosi riferimenti simbolici allo sperma: in una fotografia c'è una modella che, a bocca aperta, riceve una sostanza biancastra gocciolante dal tacco a spillo di un'altra modella. Il titolo è Money shot, che in inglese indica l'eiaculazione visibile che serve a rendere appetibile (e redditizia) la pornografia. In un'altra c'è una Naomi Campbell nuda che si strizza addosso un cartone di latte che le cola, tra l'altro, in mezzo ai seni. Per non parlare della fotografia finto-pubblicitaria in cui un wuerstel è infilato tra i seni della modella. Titolo: Eat the meat, mangia la carne. E, volendo vedere la cosa con l'occhio del bigotto, qualcuno potrebbe dire che tutte quelle apparizioni di un Cristo pieno di piercing è ai limiti della blasfemia e dell'irrisione - tanto che, giusto per mettere le cose in prospettiva, mi volto verso D. e gli dico: "Pensa se al posto di Cristo ci avesse messo Maometto". La domanda, quindi, mi arriva spontanea alle labbra: come mai suor Letizia (Moratti) l'ha fatta passare? Perché non ha esercitato la censura preventiva come aveva fatto qualche mese con quella mostra - annunciata, rimandata e poi definitivamente chiusa - intitolata Arte e omosessualità? Qui, anzi, il suo nome campeggia all'ingresso nel "colophon" degli sponsorizzatori e degli organizzatori. Possibile che lei e la sua cricca di adepti di Confusione e Disperazione - come li chiama lei - non si siano accorti di tutti i culi, le tette, i cazzi, le allusioni a pompini e sodomie (nelle fotografie in cui un uomo ha un sottile vaso di fiori infilato nel deretano o in cui alcune modelle sono lì in fila, nude, chiappe all'aria)? Allora mi sono dato una risposta: nell'altro caso - quello della mostra censurata - il tema dell'omosessualità era non soltanto esplicito, ma persino dichiarato nel titolo. Veniva cioè usata la parola "omosessualità", che è cosa vietatissima nella mentalità beghina di certi cattolicanti. Qui, finché tutto resta allusivo e non detto, il problema non si pone. Anzi, a giudicare dalla folta presenza di visitatori e dalle vendite nello shop, dev'essere anche ben redditizio.