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Dopo il libro, era inevitabile che mi procurassi anche il film: ieri sera ho dedicato una serata casalinga alla visione di La strada di Levi, di Davide Ferrario e Marco Belpoliti. I due autori hanno rifatto, sessant'anni dopo, la strada percorsa da Primo Levi quando nel 1945 è stato liberato dal Lager di Auschwitz. Una strada lunga e intricata, durata otto mesi, che l'ha portato in Ucraina, in Bielorussa, in Moldavia - a quei tempi tutti stati appartenenti all'Unione Sovietica e oggi repubbliche indipendenti -, in Romania, in Ungheria, in Austria, in Germania e, infine, a Torino. Che cosa resta di quella realtà? Il film usa ampi stralci dalle opere di Primo Levi e, in particolare, da La tregua che per l'autore era proprio quel periodo tra la liberazione dal campo di sterminio e il ritorno alla "vita normale" e che gli autori del film interpretano invece, metaforicamente, come quel lungo tempo sospeso tra la fine della guerra mondiale e gli eventi dell'11 settembre 2001, con cui si aprono i primi fotogrammi. Per chi, come me, subisce ancora il fascino dell'Europa centrale e della stratificazione storico-culturale di cui ancora oggi porta i segni, "La strada di Levi" è un film di grande fascino. L'unico difetto rispetto al libro - se poi può essere definito un difetto - è che da un certo punto in avanti, più o meno da quando i due autori attraversano il confine con la Romania, sembra che la narrazione subisca un'accelerazione improvvisa, come se avessero fretta di arrivare alla meta. Il libro procede con più lentezza e indugia di più sui luoghi visitati e sui personaggi incontrati, ma forse questo è il limite della forma cinematografica, costretta a riassumere in un'ora e mezzo la grande quantità di materiale girato. Per esempio, l'incontro con Mario Rigoni Stern - amico di Primo Levi e testimone altrettanto lucido della Seconda Guerra Mondiale - sull'Altopiano di Asiago è liquidato in pochi minuti. Credo che da La strada di Levi si sarebbe potuto trarre un documentario estremamente interessante in tre o quattro parti, da trasmettere in televisione, magari in prima serata. Se in Italia esistesse ancora una televisione pubblica e non quella specie di emanazione della pubblicità che trasmette vaccate a getto continuo. Finché è così, è evidente che un progetto come quello di Davide Ferrario e Marco Belpoliti non ha alcuno spazio.
Il secondo film che ho guardato ieri sera - ero già un po' depresso, avevo bisogno di "tirarmi su" - è S-21. La macchina di morte dei Khmer rossi, di Rithy Panh. Come si sa - l'ha scoperto persino Veltroni - i Khmer rossi hanno sterminato, negli anni che vanno dal 1975 al 1979, circa due milioni di cambogiani, cioè un buon quarto della popolazione. Rithy Panh, internato nei campi di lavoro a undici anni e fuggito in Francia, si è concentrato, in questo film, sul famigerato S-21 di Tuol Sleng, dove in quegli anni venivano rinchiuse, interrogate, picchiate, torturate, stuprate e uccise molte delle vittime dell' "Angkar", l'Organizzazione - come si faceva chiamare il partito comunista di Pol Pot. L'approccio di Panh è assolutamente interessante: il suo non è un documentario storico in senso stretto, perché non ci sono filmati o documenti d'epoca, ma è una ricostruzione di quello che avveniva in quel luogo attraverso le testimonianze dei sopravvissuti. Sopravvissuti tra le vittime, ma - soprattutto - tra i carnefici. Rithy Panh mette insieme un gruppo di soldati di allora e alcune vittime e fa raccontare a loro quello che accadeva. Nel caso dei soldati - alcuni dei quali erano ai tempi molto giovani: tredici o quattordici anni - fa loro ripetere esattamente i gesti che eseguivano allora, con lo stesso automatismo con cui gli erano stati conculcati. Certamente, in questo film ci sono solo i "pesci piccoli", ma vediamo comunque il loro tentativo di fare i conti con una violenza che ha distrutto in primo luogo la loro umanità, affinché a loro volta potessero distruggere quella dei loro prigionieri. Una delle vittime spiega che ancora oggi è impossibile parlare di "pacificazione" nazionale se chi ha commesso quei crimini non soltanto non li riconosce come crimini, ma neppure dice che si è trattato di "sbagli". E poiché mancano le immagini di quelle violenze, tutto è affidato alla spoglia forza evocativa dei luoghi e alla potenza delle parole dei sopravvissuti - e, per inciso, il documentario è in lingua khmer con i sottotitoli -, che fanno riemergere la brutalità di quel genocidio.
16:29 in Visti, letti, ascoltati | Permalink | Comments (0)
Chi l'avrebbe mai detto, solo un anno e mezzo fa? Eppure oggi si corona un sogno d'amore e, finalmente, i due acerrimi nemici si ritroveranno uniti nello stesso partito. E' ufficiale: Carlo Giovanardi abbandona l'Udc per entrare nel "nuovo" partito del Caimano. L'aveva preannunciato il 22 novembre, dalle prestigiose colonne di Libero e oggi lo riconferma: titola infatti il pregevole foglio di Feltri "Ufficiale, Giovanardi lascia l'Udc per Silvio". Del resto, che altro potrebbero fare? Poveretti, bisogna capirli: se sapessero lavorare, lavorerebbero, e invece gli tocca dipendere dalle grazie (e dal portafoglio) del Signore di Arcore. Consiglio dosi massicce di Maalox e di Alka Seltzer per digerire i rospi che dovranno mandar giù. O forse non ce ne sarà bisogno e non se ne accorgeranno nemmeno: la poltrona garantita sarà il loro più potente antiemetico. Poi, con un minimo di scilinguagnolo e la giusta dose di capziosi paralogismi riusciranno a giustificare tutto agli occhi dei loro "elettori". Buon lavoro a voi e a chi vede - in questa schifezza - un'ottima occasione di "rottura" e di "cambiamento".
Vivere è imparare a gestire l'impotenza. Imparare a distinguere le cose che si possono cambiare da quelle che invece sono immodificabili e agire di conseguenza: operare in modo da migliorare le prime e cercare invece di accettare le seconde, senza lasciarsi travolgere da un superomismo privo di efficacia. A dirlo così sembra una constatazione banale, una ricetta semplice da applicare, come seguire una linea retta che a un certo punto arriva a una biforcazione in fondo alla quale, comunque vada, si staglia luminosa una qualche forma di serenità. Ma facile lo è solo in senso astratto, come quando la nostra mente insegue i pasaggi della dimostrazione di un teorema matematico: basta fare così e cosà ed ecco la soluzione a portata di mano. La realtà è diversa: quel sentiero che in teoria sembra così diretto è irto di ostacoli psicologici e di trappole. Innanzitutto: come facciamo a capire se quello che ci sembra immodificabile in realtà non lo è, e viceversa? Magari rischiamo di non agire perché pensiamo che la nostra azione non abbia alcun effetto. Gettiamo la spugna troppo presto, ci prepariamo ad accettare la nostra impotenza proiettando all'esterno un ostacolo che è solo dentro di noi. Oppure ci dimeniamo tanto e sbattiamo la testa contro un muro che, al contrario, è invalicabile e incrollabile. Non sarà mai possibile non invecchiare o non morire, per esempio. Per (non) lottare contro i mulini a vento, dobbiamo prima averli riconosciuti, ma il problema è non c'è nessuna garanzia, a priori, che sapremo farlo. E saperlo fare dipende anche dallo stato d'animo in cui ci troviamo in quella circostanza: siamo pieni di energie? Bene, morderemo la realtà e le sconfitte sembreranno dettagli irrilevanti, superabili grazie alla nostra insistenza. Siamo in uno stato di abbattimento e di sconforto? Ogni minimo rovescio servirà a confermarci che tutto è immodificabile. E se quello che si poteva modificare non si modifica nonostante i nostri sforzi e tutti i nostri tentativi, non finiremo per essere risucchiati nelle profondità del nostro senso di impotenza? Vivere è resistere alla tentazione della paralisi. E' come quando restiamo immobili troppo a lungo in una posizione scomoda e ci sembra di non sentire più un braccio o una gamba. Eppure sono ancora lì: solo muovendoli potremo rendercene conto - finché, davvero, non resterà più nulla da muovere.
11:57 in Appunti e riflessioni | Permalink | Comments (1)
Ecco, uno dice: i blog, i post, più o meno la solita solfa... Alla fine è tutto quanto una forma di narcisismo, magari una specie di social networking: io linko te, tu linki me... Eppure, qualche rara volta, capita di leggere qualcosa di spiazzante, un testo che sembra forzare e violare tutte le regole - implicite, mai dichiarate, eppure così percepibili nelle aspettative del lettore - della scrittura blogghistica: bisogna essere lievi, bisogna essere comunicativi, bisogna essere spiritosi. Invece non è affatto detto che debba essere così. Per esempio, questo testo, che io esito a chiamare post, è tangente rispetto alla blogosfera: è sufficiente leggere la prima riga per accorgersi che si è già staccato da ogni forma prevedibile ed è decollato per andare in orbita. Io, un testo così, mi aspetterei di trovarlo stampato con inchiostro nero sulla pagina bianca di un libro, perché questa è la parola di uno scrittore. E' letteratura, per chi sa riconoscerla, è scrittura cesellata in ogni suo minimo dettaglio, pittura che non usa pennello e colori ma parole. Parole che, al mio occhio di lettore, risultano esatte: sono tutte dove dovrebbero essere e non potrebbero che essere così. Le immagini mi sfilano davanti agli occhi, evocate da queste parole, e accostandosi le une alle altre producono un senso nient'affatto scontato. E' anche in questo che riconosco lo scrittore: nell'abilità di mostrare ciò che non è immediatamente visibile, ma che lo diventa dopo la lettura. Forse io sarò un conservatore, un tradizionalista, quando mi ostino ad associare la letteratura alla carta stampata, al libro rilegato, con una copertina e un frontespizio che riportano il nome dell'Autore - un oggetto statico e immodificabile -, e forse attribuisco ancora troppa importanza a questa cosa che qualcuno vorrebbe ormai morta nell'era telematica. Dovrei accettare il fatto che oggi si crea letteratura anche altrove, magari proprio in questa rete dalla quale si pescano anche tanti detriti. Eppure non riesco a non pensare che un testo così meriterebbe dignità di stampa, per sottrarlo alla volatilità della rete e per dargli (insieme con altri suoi testi) la permanenza che gli spetterebbe.
01:29 in Visti, letti, ascoltati | Permalink
Sarebbe ingiusto imputare alla sinistra (italiana, ma non solo) un intenzionale antisemitismo, ma sarebbe altrettanto ingiusto (oltre che miope) non riconoscere che anche la sinistra usa ancora - e spesso - un linguaggio e dei modelli interpretativi antisemiti. E' un'influenza esterna o è qualcosa che la sinistra porta dentro di sé e che attraversa tutta la storia? E, soprattutto, è possibile eliminare definitivamente queste scorie ideologiche, dopo averle riconosciute in quanto tali e dopo aver smesso di negare l'evidenza. Del tema "Antisemitismo a sinistra" si occupa Gadi Luzzatto Voghera nel suo omonimo libriccino, ripercorrendone le origini e l'evoluzione in concomitanza con lo sviluppo delle varie forme assunte dalla sinistra politica.
Tanto per cominciare, Luzzatto Voghera constata che in Europa occidentale gli ebrei cominciano il loro processo di emancipazione e di integrazione nella società più o meno nello stesso periodo, alla fine del diciottesimo e all'inizio del diciannovesimo secolo, in cui si affermano anche i concetti principali della sinistra: uguaglianza, solidarietà e - in modo più vago - libertà. Allo stesso tempo, però, nasce anche il sistema capitalistico moderno. In questo concorso di circostanze, molti teorici della sinistra - tra cui anche Karl Marx, con il suo La questione ebraica - stabiliscono un collegamento astratto tra la figura del capitalista e quella dell'ebreo. Quest'ultimo perde così la sua "concretezza" e diventa sempre più un'icona (negativa) lontana dalla realtà: il capitalista - malvagio e da abbattere - finisce per coincidere con l'ebreo. Lo stereotipo antiebraico entra a far parte anche del linguaggio e dell'azione politica della sinistra. Questa identificazione funziona finché non arrivano gli ebrei reali, quelli in carne e ossa, a smentirla. Per esempio, quando si formano i primi sindacati che raggruppano operai ebrei (il "Bund"), la sinistra del tempo si trova di fronte un tipo di ebreo che fa parte proprio di quella classe che essa stessa difende. Oppure con il famigerato "affaire Dreyfus", in cui l'ex capitano - una persona concreta, oltre che innocente - cade vittima del pregiudizio antiebraico.
Centrale è, in una prima fase storica della sinistra moderna, l'analisi ideologica marxista che mette l'accento sulla lotta di classe. Al di là dell'appartenenza a una certa classe, nient'altro conta: tutta la storia è interpretabile alla luce dello scontro tra le varie classi. Quella a cui appartiene il futuro è il proletariato. Le differenze nazionali non hanno importanze e, anzi, sottolinearle sarebbe "controrivoluzionario". L'internazionalismo comunista predica la dissoluzione delle nazionalità e se si parla di "emancipazione degli ebrei", lo si fa solo nel senso che gli ebrei possono sì avere tutti i diritti di tutti purché si sciolgano nell'unità magmatica del resto della popolazione e perdano la loro identità nazionale ebraica.
Auschwitz - e l'esperienza della Shoàh - rappresenta un vero e proprio spartiacque. Tanto immensa è stata la catastrofe che ha colpito il popolo ebraico da lasciare tutti - inclusa la sinistra - senza parole: l'antisemitismo esplicito e smaccato di "prima" non è più possibile. Scrive Luzzatto Voghera: "E' come se l'antisemitismo venisse volontariamente espulso dalla storia e relegato nel buio passato, delegato comodamente alle pratiche persecutorie dei nazisti e dei fascisti". In realtà, la Shoàh - sottolinea l'autore - è, per quanto tragica, una tappa della storia dell'antisemitismo europeo. Fare coincidere l'antisemitismo solo con quella catastrofe significa, implicitamente, sostenere che al di fuori di quella forma specifica l'antisemitismo non esiste (più), dando quindi in un certo senso il via libera ad altre forme - apparentemente più innocue - di antisemitismo, "accettabili" anche per la sinistra che non le riconosce come tali.
Dopo Auschwitz, dunque, l'ebreo subisce un'ulteriore trasformazione, generando altre due "icone" astratte. La prima è quella della vittima. Se è vero che gli ebrei sono delle vittime, è anche vero che la loro identità non consiste solo nel fatto di essere vittime. Accettare gli ebrei solo in quanto vittime (magari da compatire) significa volerli inchiodare unicamente in quel ruolo: nel momento in cui non sono più vittime li si potrà "pestare" più comodamente, insomma. O, per dirla con Luzzatto Voghera: "Ma una cosa è essere vittima, un'altra è vedersi riconosciuta come legittima la propria identità ebraica solo in quanto vittima di persecuzioni" - e poi aggiunge, provocatoriamente, che è come se Hitler avesse vinto, "perché è proprio della filosofia di Auschwitz l'idea di spogliare l'ebreo della sua identità complessa di essere umano". La vittimizzazione degli ebrei, soprattutto da parte della sinistra, rende gli ebrei accettabili non per quello che sono, ma per quello che fa comodo che siano. (E, tra parentesi, Luzzatto Voghera specifica che in parte anche i palestinesi hanno subito un trattamento simile: la loro realtà sociale, culturale e politica viene sottoposta a numerose distorsioni, fino a giungere a glorificare un movimento fondamentalista islamico come Hamas attribuendogli un carattere "rivoluzionario").
La seconda "icona negativa" è quella dell' "ebreo come persecutore", opposta e complementare a quella dell' "ebreo come vittima". Per creare questa seconda icona occorre trasformare radicalmente il senso del termine "sionismo". Quello che originariamente è una forma di Risorgimento, un movimento di "rinascita nazionale con l'obiettivo di istituire una nuova forma-Stato in cui gli ebrei potessero rifugiarsi e organizzare la loro vita sociale, economica e culturale" diventa, per una certa sinistra, uno strumento economico-militare che opera a favore dell'imperialismo capitalista e americano, ai danni dei popoli mediorientali. L'ebreo si trasforma così di nuovo nell'immagine astratta del "capitalista malvagio", proprio come era alle origini del pregiudizio antisemita della sinistra ottocentesca - e in un certo senso il cerchio si chiude.
Questo fenomeno marca una contraddizione all'interno della sinistra moderna: abbandonato il periodo internazionalista, la sinistra si caratterizza per l'appoggio all'autodeterminazione dei popoli come terreno di lotta politica. Non c'è popolo - dai baschi ai vietnamiti - che non abbia avuto l'appoggio della sinistra quando è stato oppresso nella sua possibilità di autodeterminazione. L'unico popolo a cui pare che questo appoggio debba essere negato è quello ebraico: parte della responsabilità è certamente anche da far risalire all'Urss che, benché nel 1948 abbia riconosciuto la sovranità di Israele, ha poi operato quella trasformazione semantica del termine sionismo di cui ho appena detto e che oggi è diventata moneta corrente per molta sinistra oggi, tanto che, sorprendentemente, "anti-imperialismo, fondamentalismo islamico, fondamentalismo cattolico, neonazismo e neofascismo, nemici acerrimi a parole, si incontrano agevolmente".
Esiste dunque un problema, da parte della sinistra, nel riconoscere e prendere le distanze dalla riemergenza di un linguaggio antisemita che si sta diffondendo nuovamente, soprattutto nel mondo arabo e islamico, a cui si concede di derogare a princìpi sui quali, giustamente, nonsi transige in ambito europeo. In questo c'è un atteggiamento snobistico, quasi di "superiorità" inconfessata, come se si credesse ancora nel "buon selvaggio" per il quale sarebbe troppo chiedere di soddisfare certi standard. E' su questo punto che la sinistra deve interrogarsi onestamente e cambiare. Si chiede infatti Gadi Luzzatto Voghera: "E' possibile che settori ampi delle leadership di sinistra rimangano fedeli a un modello terzomondista ormai consunto e nel far questo dichiarino simpatia e amicizia per forze che sono l'antitesi di qualsiasi politica di uguaglianza, giustizia sociale, libertà? Tutti i fondamentalismi religiosi sono questo, non c'è scampo: forze reazionarie e liberticide gestite da oligarchie misogine e senza scrupoli. Accettarne l'amicizia pelosa, o anche solo fingere di dialogare con essi senza nel contempo ribadire con fermezza la fedeltà ai valori della convivenza civile significa in sostanza tradire gli ideali nel nome dei quali si afferma di voler lavorare". Credo che non si potrebbe esprimere più chiaramente l'angoscia provocata dalla contraddizione che qualcuno a sinistra sembra coltivare senza essere sfiorato dal dubbio.
Questo volumetto di Gadi Luzzatto Voghera, che comprende poco più di un centinaio di pagine, ha il pregio, rispetto ad altri (come per esempio il pur interessante Gli antisemiti progressisti di Fiamma Nirenstein), di essere molto stringente nei suoi ragionamentii. L'autore non si dilunga mai più del necessario, ma arriva subito al punto, con argomenti forti e convincenti. E' evidente che Luzzatto Voghera crede nella forza della ragione, intesa in senso illuministico: basta fornire prove, basta smontare la "macchina" dell'antisemitismo - per quanto questa sia truccata o travestita da altro - per evidenziarne il funzionamento e le parti nascoste. Tra l'altro, nel corso del testo, vengono riportati verbatim alcune citazioni da articoli e da pezzi di giornalisti di sinistra senza che però ne sia subito indicato il nome (che però è riportato in nota in fondo al libro): è impressionante osservare come alcuni di essi grondano letteralmente di stereotipi antisemiti anche quando dichiarano di voler solo "criticare" Israele. Ecco perché è capitale che sia proprio la sinistra a compiere un processo di demistificazione, riconoscendo e superando quelle scorie antisemitiche che purtroppo porta ancora dentro di sé. In primo luogo per non lasciare alla destra - non si sa quanto sincera - l'appoggio agli ebrei: "Chi è o si sente solo (...) non rifiuta una mano amica, anche a costo di cadere in una trappola". Ci si potrebbe infine chiedere: perché rimanere a sinistra? Il piccolo, denso saggio di Luzzatto Voghera lo spiega nelle pagine conclusive, presentando un elenco programmatico di quella che è la sua sinistra. E che è la sinistra che auspico anch'io:
"La mia sinistra guarda con orrore a ogni forma di demagogia che semplifica la complessità delle relazioni umane per ottenere il potere. (...) La mia sinistra si batte per una riduzione delle disparità sociali. (...) La mia sinistra si batte per un'equa distribuzione dellle risorse, il che significa operare economicamente per una riduzione e non per un aumento incontrollato della forbice tra i tantissimi che hanno poco o nulla e i pochissimi (...) che hanno moltissimo. (...) La mia sinistra si batte per un sistema di istruzione ed educazione aperto e libero da vincoli ideologici. (...) La mia sinistra si batte per la sicurezza, che non è un concetto di destra ma un principio di libertà. (...) La mia sinistra si batte per la pace, ma non accetta che la pace venga usata come cavallo di Troia per far passare azioni di esclusione, né che venga strumentalizzata per mobilitare l'opinione pubblica. (...) La mia sinistra, infine (last, but not least), incoraggia la ricerca scientifica nella convinzione che sia questa a poter determinare l'apertura nella società degli spazi di libertà necessari al miglioramento delle condizioni di vita sul nostro pianeta e delle condizioni di convivenza fra i diversi gruppi umani."
00:41 in Visti, letti, ascoltati | Permalink | Comments (1)
"C'è crisi di energia nel mondo mentre le fonti esauribili si esauriranno. Anche l'Italia compra energia elettrica dalla Francia, la quale ne produce il 78 per cento per via nucleare. Gli italiani si sono negati questo tipo di produzione ma mi auguro che ci ripensino." Già, a parte l'ovvia constatazione che le "fonti esauribili si esauriranno", perché se così non fosse sarebbero fonti inesauribili, di chi sarà mai questa frase riportata dal Corriere della Sera di oggi, a pagina 17? Non lo direste mai, ma è del cardinale Raffaele Martino: ormai in questo paese i prelati danno un'opinione su tutto e non evitano nemmeno di pontificare sull'ovvio, come un'Alba Parietti qualunque. Però a questo punto - rispetto a un'Alba Parietti -, se proprio ci tengono a farci sapere la loro sulle "fonti esauribili che si esauriranno", potrebbero sollecitare l'intervento divino affinché faccia il miracolo della moltiplicazione dei giacimenti petroliferi e della riduzione dell'inquinamento ambientale. Insomma, la notizia sarebbe che - grazie a dio, è il caso di dire - le "fonti esauribili non si esauriscono più". Altrimenti, tanto vale tenerci Alba Parietti come opinionista in tv.
08:56 in Irritazioni, disgusti, idiosincrasie | Permalink | Comments (4)
Non si è certo risparmiato Rufus Wainwright nel concerto che ha tenuto stasera al Conservatorio di Milano. "Oh my god! I'm at the music school" ha scherzato, durante l'esecuzione di Cigarettes and chocolate milk, anche se rivolgendo lo sguardo verso la vetta della digradante sala Verdi aveva già detto prima che gli sembrava di stare a "Machu Picchu". Poi, tra un pezzo e l'altro, ha continuato a fare battute e raccontando aneddoti su Milano e, soprattutto sulla Scala, da appassionato d'opera qual è: "Oggi il mio ragazzo, Jorn, era a un incontro con dei tipi della Scala per un suo progetto e ha chiesto se qualcuno era interessato a vedere il concerto di Rufus Wainwright stasera. Nessuno sapeva chi ero. Se avete un amico alla Scala, picchiatelo". Eppure un giorno "la mia opera sarà rappresentata alla Scala e io sarò seduto tra il pubblico ad ascoltare la mia musica. Come voi stasera, che fortuna avete!" Ma, al di là delle battute con cui ha intrattenuto il pubblico, il concerto del cantautore-musicista canadese non è stato solo un (gran) concerto, ma una dimostrazione pratica dei suoi numerosi talenti. L'ossatura dello spettacolo l'hanno formata le canzoni dell'ultimo album di inediti, Release the stars, che Wainwright ha presentato quasi nella sua interezza (dieci pezzi su dodici), inframmezzandolo con altri brani tratti dal repertorio e alternando pezzi più lenti a pezzi più movimentati, passando da esecuzioni soliste al pianoforte a esecuzioni accompagnato dai suoi bravi musicisti. Da quando l'avevo visto all'Alcatraz un paio d'anni fa, quando aveva fatto da supporter ai Keane sacrificando un po' troppo il suo talento per un pubblico distratto, mi era rimasta la voglia di rivederlo e risentirlo dal vivo. Quando ho saputo che sarebbe tornato a Milano non ho esitato a procurarmi i biglietti.
Rufus Wainwright si è presentato sul palco alle 21.10 e, con indosso un completo color "Arlecchino", ha attaccato subito con Release the stars, infilando subito dopo il brano trainante del nuovo album, Going to a town. L'ho trovato in ottima forma vocale, persino migliorato rispetto al passato. La voce c'era allora e c'è anche oggi - piena, rotonda e potente - ma adesso ha anche imparato a non vocalizzare il respiro durante l'emissione della voce. La prima parte - di un'oretta scarsa - è stata ciò che potremmo definire un concerto piuttosto tradizionale e ha incluso soli due pezzi di repertorio, eseguiti al pianoforte: Cigarettes and chocolate milk, che ha scatenato l'entusiasmo del pubblico, e la strepitosa The art teacher. Detto per inciso, io trovo che l'accompagnamento del solo pianoforte sia sempre una soluzione molto emozionante, soprattutto quando la voce c'è, perché la bellezza della canzone risalta ancora di più nella sua nudità, spogliata degli orpelli dell'orchestrazione. E le sue canzoni resistono a questa prova, a dimostrazione del fatto che la sostanza c'è e che non è tutto merito degli arrangiamenti complessi con cui Wainwright riveste i suoi brani.
Nella seconda parte sono arrivate invece alcune sorprese, a partire dal cambio d'abito di Wainwright, che ha indossato la camicia e i calzoni in stile bavarese con cui è fotografato sul retro della copertina di Release the stars. Poi ha presentato il cd e il dvd - in uscita all'inizio di dicembre - dedicati a Judy Garland. Sono la registrazione di due concerti tenuti da Rufus Wainwright: il primo alla Carnegie Hall di New York, il secondo al Palladium di Londra. Entrambi sono stati, a loro volta, la ricostruzione "filologica" del concerto tenuto nel 1961 dalla stessa Judy Garland alla Carnegie Hall. Da qui Rufus ha scelto due canzoni: A foggy day (in London Town) e If love were all. Infine ha eseguito una canzone folk irlandese di John McCormack. Non ci sarebbe niente di strano se non avesse deciso di proporla come "avviene nei teatri d'opera": senza microfono, a "voce nuda", per così dire. La seconda parte si è chiusa con 14th Street e con Rufus che si è allontanato facendo ciao ciao con la manina e lasciando i musicisti a completare il brano, finché anche questi hanno abbandonato il palco, uno per volta, dopo aver fatto ciascuno un assolo con il proprio strumento. Tra i presenti, qualcuno ha creduto forse che il concerto fosse finito e, vedendo i tecnici che staccavano i cavi, si è alzato e se ne è andato. E si è sbagliato di grosso, perché non si sa che cosa si è perso.
L'ultima parte del concerto, cominciata come un normale "bis" invocato dal pubblico, ha riservato le sorprese più divertenti, trasformando quello che fino a quel momento era stato un concerto tutto sommato "puro" in qualcosa d'altro. Qualcosa di non precisamente definibile, tra lo spettacolo e il cabaret; qualcosa che ha rivelato il gusto tutt'altro che minimalista di Rufus Wainwright. All'inizio è entrato avvolto in un accappatoio bianco e si è messo al pianoforte per eseguire prima I don't know what it is con la sua band e poi da solo, senza soluzione di continuità, Poses e Complainte de la Butte. Alla fine dei tre brani ha preso una sedia, si è seduto di fronte al pubblico, ha indossato un paio di orecchini, si è dato del rossetto sulle labbra, si è tolto l'accappatoio, ha calzato un paio di scarpe con i tacchi a spillo e si è trasformato in uno dei più convincenti e divertenti impersonatori femminili che mi sia capitato di vedere, danzando con un gruppo di ballerini e "mimando" (stavolta in playback) Get Happy. Il pubblico, ormai, era in delirio. Oltre al musicista che, accompagnandosi al pianoforte e alla chitarra, suona e canta le canzoni che lui stesso ha composto, oltre all'interprete di canzoni altrui - perché va ricordato che, oltre al tributo a Judy Garland, Wainwright ha cantato in passato anche brani di Leonard Cohen e dei Beatles -, ha dimostrato di essere anche un vero e proprio animale da palcoscenico, un trascinatore così talentuoso da potersi permettere di essere anche una splendida drag-queen dalle bellissime e lunghissime gambe - e in quel momento ho capito, anzi ho sentito che cosa significa essere un artista che possiede, oltre a un enorme talento e a un'indiscussa bravura, anche magnetismo e carisma da vendere. Il concerto si è concluso con quella che è forse una delle sue canzoni più "politiche": Gay Messiah. Il pubblico gli ha tributato una standing ovation, calorosissima e meritata. E' giusto che sia così: uno come Rufus Wainwright nasce una volta ogni morte di papa, come si usa dire. Speriamo ne muoiano molti, allora.
La scaletta:
Release the stars / Going to a town / Sans souci / Rules and regulations / Cigarettes and coffee milk / The art teacher / Tiergarten / Leaving for Paris no. 2 / Between my legs
Matinee Idol / Do I disappoint you? / A foggy day (in London Town) / If love were all / Beautiful child / Not ready to love / Slideshow / Macushlah / 14th Street
I don't know what it is / Poses / Complainte de la Butte / Get happy / Gay Messiah
02:06 in Visti, letti, ascoltati | Permalink | Comments (16)
Avere idee chiare e desideri ben precisi ma non sapere come fare per realizzarli è già, di per sé, frustrante, se non ansiogeno. Non si sa come tradurli in pratica perché sono i mezzi a mancare o perché questi desideri sono velleitari e sproporzionati rispetto alla realtà in cui dovrebbero calarsi? Ma peggio è quando non si sa più esattamente nemmeno che cosa si vuole. Si è sottoposto tutto a un processo così raffinato di analisi - cioè di separazione dei singoli elementi costitutivi del tutto - che la visione complessiva è andata perduta: restano brandelli sfilacciati, senza più relazione o gerarchia tra di loro. Allora non ci si sente più soltanto frustrati o in ansia - perché non si sa come realizzare la propria volontà -, ma ci si sente persino in preda al panico perché sembra quasi che non si abbia più una volontà chiaramente distinguibile. "Ma tu che cosa vuoi?" diventa una domanda in grado di spalancarti davanti un baratro se, come risposta, riceve solo uno sguardo attonito e muto, una bocca aperta da cui non esce più una parola. Questo annullamento della volontà, lungi dall'essere nirvanico, è un puro distillato d'angoscia e genera una paralisi terrificante. Ricominciare a volere - volere sul serio -, senza aver la sensazione di ingannarsi, diventa un'impresa titanica.
20:59 in Due giri intorno al mio ombelico | Permalink | Comments (1)
A pagina diciotto della Gazzetta dello Sport di oggi m'imbatto in una perla di comicità involontaria che, stavolta, non credo affatto sia imputabile al redattore. Un riquadro riporta questa notizia: "Daspo (diffida a frequentare gli stadi) per un anno a due tifosi dell'Atessa, che gioca tra i dilettanti in Eccellenza: durante la partita col Chieti dell'11 novembre, I.F. di 16 anni e F.W di 29 si sono calati i pantaloni mostrando i glutei alle forze dell'ordine rischiando di determinare, secondo la polizia, una situazione di rischio e di pericolo". Chissà quale pericolo - tale da giustificare l'allontanamento dagli stadi per un anno - può derivare da due culi nudi esposti all'occhio delle autorità. Una parte di me è tentata da un'interpretazione scatologica: forse i due giovani soffrivano di una pesante flatulenza che, appunto, minacciava di scatenarsi contro i poliziotti. Un'altra parte, invece - quella che apprezza le rotondità posteriori maschili e che, di tanto in tanto, ama farne un uso inviso, almeno a parole, alle gerarchie cattoliche -, immagina che il rischio consista nella seducente attrattiva che una siffatta visione potrebbe esercitare sulle forze dell'ordine. E se, colti da improvviso desiderio, i poliziotti estraessero un'altra pistola che non fosse quella d'ordinanza? La mia mente mi catapulta all'improvviso in un film della Cazzo o di Cadinot. Meglio allontanarli dagli stadi, dunque. Spassosa, invece, la pruderie con cui il titolo del riquadro riassume la notizia: "Mostrano il sedere alla polizia: Daspo per due". Tanto valeva osare di più con un bel "Mostrano le terga" e non perdere l'occasione di sollevare (lessicalmente, solo lessicalmente) lo standard del lettore medio della Gazzetta.
08:50 in Irritazioni, disgusti, idiosincrasie | Permalink | Comments (5)