Commentando il saggio di Susan Sontag, qualche giorno fa, ho finito per parlare di "psicologizzazione della realtà", quel fenomeno per cui oggi, in presenza di determinati eventi - come, per esempio, una malattia - si tende a spostare l'accento dalle cause esterne, oggettive, su (presunte) cause interne al soggetto. Intervenendo su queste non occorrerebbe più intervenire sulle prime: la realtà diventerebbe neutra e, in un certo senso, del tutto innocua. Io credo che questo modo di procedere non sia il frutto di un'evoluzione necessaria, ma porti in sé forti tracce ideologiche: la realtà viene cioè costretta nella gabbia di un'idea formulata a priori e a quest'ultima deve cedere il passo, snaturandosi.
Una certa interpretazione della malattia come prodotto di una "volontà inconsapevole" - un ossimoro, me ne rendo conto - dell'individuo e, come tale, risolvibile o prevenibile grazie a un corretto atteggiamento psicologico è soltanto una manifestazione di questo processo di psicologizzazione della realtà. Ho letto, di recente, un interessante saggio di Martin E. P. Seligman, uno dei più importanti psicologi americani, dal titolo Learned Optimism. Il punto di partenza del saggio è la ricerca delle cause della depressione: seguendo un approccio da cognitivista, Seligman ritiene che certe forme di depressione dipendano dal pessimismo, il quale è - a sua volta - il risultato dell' "impotenza appresa". In certe situazioni, infatti, una persona può sentirsi costantemente "impotente" e finire per credere che, qualsiasi siano le sue reazioni, la circostanza data non cambierà mai. A essere decisivo, quindi, è il modo in cui ogni singolo individuo valuta e spiega ciò che gli accade, il cosiddetto "stile di spiegazione": al riguardo Seligman appronta tutta una serie di test per determinare il grado di "pessimismo" - e, quindi, di tendenza alla depressione - delle persone. Non entro nei dettagli, comunque molto interessanti, ma mi limito a osservare che da un certo punto in avanti l'accento si sposta: se dal pessimismo - e quindi da uno stile di spiegazione che favorisce l'apprendimento dell'impotenza individuale - può nascere la depressione, come si può fare ad apprendere l'ottimismo, che dovrebbe al contrario favorire la gioia di vivere? Ottimista è chi, per esempio, non rinuncia dopo che un tentativo è andato male o chi non spiega i suoi fallimenti in modo permanente, personale e universale ("sarà sempre così, è solo colpa mia, andrà tutto male in ogni ambito", tanto per intenderci). E per studiare questo tipo di atteggiamento Seligman si rivolge ai venditori (soprattutto telefonici) di polizze assicurative di maggior successo, cioè quelli che non si scoraggiano dopo aver ricevuto un certo numero di risposte negative, ma anzi non perdono nemmeno l'entusiasmo. Se il loro atteggiamento ci insegna qualcosa, questo insegnamento può essere anche "venduto" alle aziende perché selezionino in modo adeguato dipendenti più resistenti a un certo tipo di stress. Man mano che ci si inoltra nella lettura del saggio di Seligman, una teoria che potrebbe essere di grande utilità per la crescita e la realizzazione personale si tramuta in una tecnica - con solide basi psicologiche, per carità - adatta a spremere meglio i lavoratori, senza pagare dazio.
Ma che cosa c'entra questo con il discorso che facevo all'inizio? In un certo senso c'entra: posto di fronte alle rigidità di un lavoro, chi non dimostra sufficiente ottimismo - e quindi capacità di successo - è cortesemente invitato a modificare se stesso e la sua percezione del mondo non perché questo lo farà stare meglio, a prescindere dal lavoro che fa, ma perché altrimenti non si dimostrerà adeguato al lavoro. In un mondo in cui la competizione si fa più aspra per produrre cose sempre più inutili non si pensa che, forse, è quel mondo ad avere qualche difetto, ma si psicologizza il problema: è l'individuo che non va ed è lui che dobbiamo cambiare. Se una persona è costretta, nel corso della sua vita, a cambiare dieci lavori, ad assumersi incarichi sempre più dequalificati, ad adeguarsi ai ritmi sempre più stressanti - da gallina ovaiola - dettati dalle esigenze produttive (e mai che si pensi di fare il contrario: adeguare il passo produttivo ai ritmi umani, più lenti), a sradicarsi sempre più spesso dal suo tessuto sociale in nome di una mobilità eletta a criterio principe e non ce la fa, non si ritiene che da cambiare è la realtà esterna, ma si individua il difetto all'interno del soggetto: da cambiare è lui, il suo atteggiamento psicologico. Ora, io sono d'accordo nel sostenere che la psicoterapia possa, in questi casi, svolgere una funzione di "contenimento del danno", perché le disgrazie capitano, di qualunque tipo esse siano - come dicono gli americani: shit happens -, ma bisogna tener sempre presente che sono per l'appunto disgrazie e non eventi auspicabili. Non mi sembra il caso di trasformare un pessimista - o un realista disincantato - in un ottimista solo per poterlo meglio legare a una catena produttiva che lo tritura: meglio è chiedersi se quest'ultima serva davvero gli interessi della salute psicologica dell'individuo.
E invece no: psicologizzando la realtà si stabilisce che basta intervenire su di sé - sul proprio "sistema psicologico" - perché tutto poi vada bene. Guariremo dalle malattie o, meglio ancora, non ci colpiranno nemmeno e, per quanto riguarda il lavoro, questo potrà essere quanto di più disumano ci sia, se non riusciremo a stargli al passo sarà solo perché "dentro di noi" qualcosa non va. Oltretutto, cominciare a credere che la causa di tutto è interna è un ottimo pretesto per non tentare di modificare le cose all'esterno: in alcune circostanze questo può trasformarsi in un perfetto strumento per esercitare il potere e mantenere lo status quo. "Non è vero che la realtà ti sta stritolando, ma sei tu che non hai il giusto atteggiamento mentale". D'altro canto, in chi si convince seriamente che sia sufficiente agire sulla propria psiche per produrre effetti concreti sull'esterno - il giusto stato mentale che guarisce dalle malattie, l'ottimismo che consente di svolgere i lavori più massacranti senza porsi il problema della giustizia sociale - s'insinua quasi un senso di potenza secondo il quale basta volere qualcosa perché questo si realizzi. Quando alla resa dei conti però i fatti smentiscono questa sovrapposizione di volontà e potenza e ne svelano il carattere illusorio, ciò che ne risulta è inevitabilmente un senso di frustrazione. O, eventualmente, la paralisi definitiva della volontà, con il rischio che l'indivuo scivoli per reazione nell'atteggiamento opposto e rinunci persino a cambiare ciò che invece potrebbe davvero cambiare.
Quanto è vero!
Cercare di inculcare un *produttivo* ottimismo è il passo successivo a quella che Adorno definiva la valorizzazione commerciale dei tratti personali di un individuo.
Quando gli smaglianti, volitivi ottimisti scarseggiano, al mercato occorre crearne qualcuno su misura.
Posted by: antonella | 19/10/2007 at 14:42
E' uno degli interventi più acuti e profondi che mi sia capitato di leggere in questo blog.
Le dinamiche descritte da questo Seligman mi suonano molto familiari. Poiché credo di essere fortemente depresso in questo periodo, mi forniscono anche spunti importanti per tentare di "lavorare" su di me.
Credo che, come spesso succede, sia necessario discernere. Con il passare del tempo mi sono convinto che la realtà esiste, certo, ma che essa non è necessariamente come la vediamo noi. Quindi è vero che, agendo sul modo in cui noi "interpretiamo" la realtà, possiamo aiutare noi stessi a vivere meglio, nel senso di "più pienamente", la nostra vita, le nostre aspirazioni: in altre parole, a vivere in maniera più conforme ai nostri desideri profondi, che sono generalmente qualcosa di diverso dal desiderio di vendere più polizze assicurative, o di avere più soldi, o più potere, o di fare più sesso, in altre parole di avere più successo, di "avere di più".
Da qui a dire che basta vedere le cose diversamente affinché le cose cambino, o che la malattia sia "colpa" di chi se la prende perché ha un atteggiamento mentale negativo, ce ne corre. Come giustamente sostieni nella seconda parte del tuo intervento, quella che tu chiami "sovrapposizione di volontà e potenza" è un'illusione, un "idolo" (o, biblicamente parlando, un "falso dio"). Se non si è coscienti di questo non si fa altro che sostituire un idolo ad un altro, mentre il nostro essere più autentico resta soppresso, soffocato.
Posted by: Monsieur Poltron | 19/10/2007 at 19:23
Rivendichiamo la nostra colite come strumento e vessillo di rivoluzione! :-)
Posted by: Stupidboy | 20/10/2007 at 12:54