"Vedi, in fin dei conti io mi identifico con la vecchia" dico a M. uscendo dal cinema dove ieri sera abbiamo visto, unici spettatori in tutta la sala, Diario di uno scandalo. "E perché?" ribatte lui. "Non so: a volte ho paura di essere un manipolatore di sentimenti altrui come lo è lei. E poi quel senso di solitudine..." dico io. "Ma va', tu non usi tutti quei sotterfugi!" mi rassicura lui. Battute a parte, il film di Richard Eyre mi ha messo a disagio, mi ha inquietato, mi ha turbato. Ci sono stati dei momenti in cui, pur non identificandomi davvero o seriamente con Barbara (Judi Dench), c'era qualcosa in lei che mi colpiva dentro, a fondo.
La storia è questa: in una scuola londinese arriva una nuova insegnante di arte, Sheba Hart (Cate Blanchett), bella e affascinante. La sua collega Barbara Covett, ormai prossima alla pensione, disillusa e alquanto cinica, ne è subito attratta. Tra le due nasce una amicizia sui generis che la più vecchia vorrebbe trasformare in "qualcosa di speciale". Lo spettatore intuisce che l'attrazione provata da Barbara va ben al di là di un'amicizia, ma che ha sfumature affettive e sessuali. Il punto è proprio questo: Barbara è una donna, lesbica, che in tutta la sua vita non è mai riuscita a integrare la sua omosessualità nella definizione della propria identità. E' una donna che, sotto una patina di rigidità morale, si è sempre "castrata" affettivamente, sprofondando in una solitudine sempre più radicale, fino a dimenticare persino come si fa ad amare un'altra persona. Giunta alla sua età piuttosto avanzata le è rimasta soltanto amarezza e insoddisfazione, che però non la spingono a rimediare e a modificarsi, ma al contrario portano in superficie il suo lato malvagio. Barbara è, insomma, una donna che non ha saputo (o non ha voluto) amare e che ora - quando pensa che sia troppo tardi per farlo - chiama "amore" quello che, in realtà, ne è l'opposto: il potere. E la vicenda che coinvolge Sheba è una storia di manipolazione, infatti.
Sheba offre - per così dire - a Barbara l'occasione su un piatto d'argento. Quest'ultima scopre per caso lo "scandalo" che dà il titolo al film (e al romanzo di Zoe Heller da cui è tratto) e che consiste in una relazione erotica, molto pericolosa, tra Sheba e Steven Connolly (Andrew Simpson), un giovane studente, appena quindicenne, della scuola. Invece di denunciarla, offre a Sheba - che è ben consapevole di essere dalla parte del torto - il suo silenzio e, in un certo senso, la sua complicità. La manipolazione comincia qui: non c'è un ricatto esplicito, contro il quale probabilmente la vittima si ribellerebbe, ma piuttosto l'uso subdolo dell'intimità e dell'amicizia. Il "segreto" tra le due donne dovrebbe, agli occhi della più anziana, servire a cementare il loro "rapporto speciale".
Barbara vede - o crede di vedere - in Sheba un'immagine speculare di sé: benché sposata (ma a un uomo molto più vecchio di lei), Sheba è insoddisfatta, e quindi è sola. Barbara si illude che le loro due solitudini potranno incontrarsi e stabilisce così un legame nevrotico che mantiene in vita esercitando costantemente il potere sull'altra donna, senza però volerlo dare a vedere. La manipolazione consiste proprio nel fatto che Barbara induce Sheba a credere che la sua amicizia sia non soltanto disinteressata, ma anche frutto della sua generosità, quando è invece l'esatto opposto, il prodotto di una cattiveria che, benché punto finale del fallimento di una vita, vuole fagocitare interamente l'altra persona, fino a privarla della sua autonomia. Sembra che a Barbara prema soprattutto distruggere i legami di Sheba, facendo leva sulla sua debolezza, sul suo bisogno e sulla sua insicurezza. E quando Sheba non le dà quello che vuole - e preferisce andare con la sua famiglia a vedere la recita scolastica del figlio -, Barbara incomincia a diffondere presso i colleghi di scuola, con voluta malizia, "voci" riguardanti la relazione illecita di Sheba con il ragazzo. E da qui parte la catastrofe finale.
Il disagio deriva dal misto di pietà e di orrore che Barbara suscita nello spettatore. C'è una scena che secondo me lo esemplifica bene. A un certo punto Barbara è nella vasca da bagno e, in sottofondo, si sente la sua voce che riflette sulla solitudine che ha caratterizzato tutta la sua esistenza e la paragona alla solitudine di cui dice di soffrire Sheba. Quest'ultima - dice la donna - non sa che cosa significhi essere davvero soli, non sa che cosa voglia dire "organizzare tutto un fine settimana intorno all'unica uscita, quella per andare in lavanderia", non sa come ci si senta a "toccare per sbaglio la mano del bigliettaio sull'autobus e a sentirsi qualcosa che ti stringe le viscere". Il punto è che, pur riconoscendo questa solitudine come il problema centrale della sua esistenza, Barbara si irrigidisce e, invece di aprirsi al mondo, sceglie di compiere il male, senza nemmeno chiamarlo per nome o, forse, riconoscerlo per quello che è. Un'altra scena toccante è quella in cui la sorella, con molta delicatezza, con affetto e comprensione, le chiede se ci sia "un'amica speciale" nella sua vita - come quella Jennifer che c'era stata in passato. La sorella sa che Barbara è lesbica e le tende una mano: è un gesto positivo a cui Barbara risponde in maniera sferzante, negando tutto. Se nella sua vita c'è stato dolore e solitudine è anche perché non è riuscita a vedere quanto c'era di luminoso - e di potenzialmente portatore di gioia - nella sua omosessualità. Aggiungo per inciso che Judi Dench è bravissima a calarsi nei panni di questa donna e a riprodurre nei tratti somatici e nella presenza fisica quella rigidità esteriore che altro non è che l'espressione visibile della sua rigidità interiore.
La storia evidentemente non può che finire male. Sheba viene denunciata, si ritrova la casa assediata dai giornalisti morbosamente incuriositi dalla bella insegnante che ha "sedotto" il ragazzino - il quale, in realtà, era abbastanza furbo da sapere come fare per suscitare l'interesse dell'insegnante - e il marito (che, tra l'altro, in tutto il film è quello che ne esce meglio) le fa una scenata, costringendola, almeno provvisoriamente ad andarsene. Sheba, che ancora non sospetta il ruolo svolto da Barbara nel precipitare degli eventi, si rifugia a casa di lei, dove scopre per caso il diario in cui l' "amica" registrava per filo e per segno lo svolgimento della storia. La scena conclusiva del film non lascia molte speranze: si vede una giovane donna che, su una panchina in cima alla collina dove andavano spesso Barbara e Sheba, legge un giornale che riporta la condanna a dieci mesi di carcere per la bella insegnante. Barbara ne approfitta per rivolgerle la parola, la invita a un concerto per qualche giorno dopo: lo spettatore sa che sta per riprodurre lo stesso meccanismo con il quale il suo "bisogno d'amore" si traduce ogni volta in manipolazione, plagio ed esercizio di potere sulla vittima di turno.
Questo film all'epoca dell'uscita al cinema mi fu stroncato da tutti i conoscenti che l'hanno visto. A me complessivamente piacque: proprio perchè, pur essendo il film "di genere" e non particolarmente originale nella trama e regia, il personaggio di Judi Dench inquieta tantissimo (proprio per i motivi da te spiegati). Davvero brava lei a incarnarlo, anche fisicamente.
Posted by: Disorder | 18/08/2007 at 00:58
Ho visto il film di sera, a marzo. Sono uscito dal cinema urtato ma sereno. Nella notte l'ho interiorizzato, il giorno successivo ero intrattabile. Mi sono riconosciuto in entrambe... Nella giovane bisognosa di attenzioni vere e nella vecchia accecata dalla solitudine. Non lo rivedrò, ma si tratta di un bellissimo film. Ciao!
Posted by: Ezio | 20/08/2007 at 01:28
all'uscita del cinema i miei amici mi volevano regalare un quadernino e delle stelline. sarò grave, dottore?!
(ansia a go-go)
Posted by: asherel | 20/08/2007 at 10:07
Qualsiasi relazione, di qualunque natura essa sia, è, di per sé, una relazione di potere. Genitori-figli, docenti-discenti, datore di lavoro-fornitore di prestazione...
Il film (e il romanzo da cui è tratto) offre uno spaccato sì di una relazione di potere malsana, in cui il disequilibrio tra i due attori è così ampio da precluderne il mantenimento, ma è anche e soprattutto una perspicace analisi della solitudine, di come questa possa trasformarsi in una prigione da cui non si vuole o non si riesce più a uscire. Barbara sbaglia perché crede di aver trovato una persona altrettanto prigioniera della propria solitudine, e sbaglia perché crede che due solitudini possano non solo incontrarsi ma anche trovare interesse a fondersi l'una nell'altra (in inglese è più bello, "to commingle") come modo per superarsi vicendevolmente. La bellezza del film sta, per me, nella sua capacità di mostrare la cecità in cui è avvolta Barbara, la sua tendenza a sovrastimare e sottostimare le emozioni e le realtà psico-sociali altrui, la sua incapacità a valutarle per quello che sono. Un momento simbolico di questo suo handicap è quando si equivoca su uno pseudo invito nella casa in Dordogne da parte di Sheba ("se ti capita di passare da quelle parti vieni a farci un salutino"): una persona dotata di normali competenze sociali capisce benissimo che non si tratta di un invito ma di un modo formale e formalmente accettabile di accomiatarsi. Questi segnali sono leggeri ma frequenti in tutto il film e credo che siano sfuggiti facilmente a molte persone che non vivono il dramma della solitudine sociale.
Posted by: avi | 27/08/2007 at 12:44