Non tutti hanno avuto la "fortuna", come il romeno Norman Manea, di avere subito le persecuzioni di due regimi - prima quello nazista e poi quello stalinista - e, soprattutto, di essere sopravvissuti per raccontarlo. Il ritorno dell'huligano è, come dice il sottotitolo, il racconto (autobiografico) di "una vita", ma è anche una lunga riflessione sui temi dell'esilio, della memoria e dell'identità nazionale. Manea è, in realtà, un romeno "atipico", certamente non per scelta ma perché sono i suoi concittadini ad averlo fatto sentire un corpo estraneo all'interno della "nazione". Manea, infatti, è anche ebreo - ed è questa la ragione per cui, nel 1941, fu deportato, insieme ai suoi genitori, dalla regione in cui vivevano, la Bucovina, in Transnistria. Questa è stata la prima esperienza dell'esilio e della separazione: una lacerazione profonda agli occhi di un bambino di cinque anni che avrà ripercussioni sulla vita successiva, come vedremo.
Dirò subito che Il ritorno dell'huligano è un libro bellissimo, non soltanto per quello che racconta, ma anche per come lo racconta. Non è la solita autobiografia che ripercorre la vita dell'autore in ordine cronologico, eppure la sua vita c'è dentro tutta, solo che sembra "esplosa". Manea la raccoglie in ordine sparso, la espone partendo anche da altri punti di vista e usa diverse tecniche. Per raccontare, per esempio, il dramma dell'epoca fascista di Antonescu usa un'intervista con la vecchia madre, quasi cieca, quando la va a trovare nel 1986 a Suceava: la sua vita viene così filtrata dalla percezione della donna che l'ha messo al mondo e questa testimonianza lega in modo ancor più forte il passato con il presente.
Norman Manea conosce una seconda volta l'esilio: nel 1988, un anno prima della caduta del regime ceausista, ottiene finalmente il permesso di emigrare. Dopo un primo approdo a Berlino, si trasferisce negli Stati Uniti, dove ancora oggi risiede. E il racconto della sua vita parte proprio dall'occasione di un viaggio nella "nuova" Romania post-ceausista, in seguito a un invito, nel 1997. Questo ritorno dopo quasi dieci anni di assenza gli provoca dubbi, ansie e paure, e rappresenta, oltre che un viaggio nello spazio, anche un viaggio nel tempo. L'ultima parte del libro racconta in presa diretta - in forma di diario - i giorni che Manea trascorre in Romania, prima a Bucarest, poi a Cluj e infine nella città di Suceava, in Bucovina, dove al cimitero ebraico è sepolta la madre, morta in sua assenza, quando lui aveva ormai abbandonato la Romania.
Tra il primo e il secondo esilio scorre il resto della vita dello scrittore, in un paese in cui, a poco a poco, la cappa dell'oppressione socialista si fa sempre più forte. Inizialmente Manea aderisce al partito comunista, per allontanarsene poi sempre più disgustato, lavora come ingegnere, ma abbandona la professione negli anni settanta per dedicarsi solo alla scrittura. Questa parte è una lunga descrizione della brutalità del regime stalinista, a partire dall'internamento del padre - nel 1958 - nel "campo di lavoro" di Periprava, per arrivare alle tante umiliazioni quotidiane. Basti citare quella di un amico il quale, in mancanza di mezzi di trasporto decenti o taxi, per portare la moglie malata a fare la dialisi in ospedale, è costretto a organizzarsi con un autista del camion che porta i materiali per la costruzione del delirante "palazzo del Popolo" voluto da Ceausescu. Poi, soprattutto negli anni ottanta, il regime romeno si distingue da quello degli altri paesi comunisti perché assorbe in sé caratteri ed elementi che erano tipici della Romania legionaria - e cioè fascista - tanto che Manea arriva a parlare di "nazional-socialismo" o di "socialismo bizantino". (Anche in un'altra raccolta di saggi, Clown. Il dittatore e l'artista, Manea spiega come la dittatura di Ceausescu realizzò una peculiare forma di pulizia etnica, "vendendo" - letteralmente - i tedeschi e gli ebrei, presenti ma minoritari in Romania, rispettivamente alla Germania e a Israele). Oltre ai singoli episodi, Manea si addentra anche nella descrizione della psicologia di chi doveva - o voleva - adattarsi a questo sistema, pur restando sempre molto legato alla concretezza dell'esperienza: Manea è, in questo senso, più narratore che saggista, diversamente da Czeslaw Milosz quando descrive il fenomeno della "mente prigioniera".
L'esperienza dell'estraneità è qualcosa che non abbandona più Norman Manea, nemmeno dopo il crollo della dittatura "nazional-comunista" di Ceausescu. Un episodio è, al riguardo, rivelatore. Negli anni novanta Manea scrive Felix Culpa, un saggio - presente in Clown - in cui Manea riflette sul coinvolgimento di Mircea Eliade con il fascismo romeno, la famigerata Guardia di Ferro di Corneliu Zelea Codreanu, e sull'ambiguità - per usare un eufemismo - che lo storico delle religioni mostrò anche in seguito, persino nei suoi diari privati. In seguito alla pubblicazione di questo saggio, Manea viene reso vittima di aggressioni verbali nella "nuova" stampa romena. Apostrofato "nano di Gerusalemme", è di nuovo considerato uno "straniero", qualcuno che usa la lingua romena per scrivere, ma non è "intrinsecamente" romeno: per questo attacca Eliade che gli ex securisti, post-comunisti, neo-fascisti e neo-nazionalisti, considerano un campione della vera "romenità". A Bucarest - benché lui non vi abiti più - c'è chi si premura di incendiare la casella postale della casa dove abitava in precedenza. E' con questo disagio che Manea accetta, all'inizio del libro, l'invito a tornare in Romania. Lo esprime attraverso un aneddoto: un amico romeno, un altro intellettuale, sostiene che se dovesse scrivere la sua autobiografia la chiamerebbe "Memoria delle mie latrine" - o qualcosa del genere. Ebbene, afferma Manea, è proprio di chi dà per scontato la propria appartenenza a una "nazionalità" la possibilità di essere così sprezzante nei suoi confronti, chi, come lui, invece è sempre stato considerato un corpo estraneo non sarà mai in grado di permettersi un simile atteggiamento.
Resta da spiegare il titolo: l'huligano - il teppista - era, nel periodo del generale Antonescu, il modello di uomo privilegiato dall'ideologia fascista. L'uomo tutto slancio vitale e violenza, il cultore della morte sacrificale che avrebbe rinnovato la società romena in senso cristiano-ortodosso. Nel periodo comunista huligano era invece considerato colui che non si piegava all'oppressione dello stato collettivista: il marginale e l'oppositore. L'huligano che ritorna, dunque, ha una duplice valenza. Da un lato è Norman Manea, l'individuo che non si lascia ridurre e silenziare dalle ideologie totalitarie - ed è per questo considerato un "teppista" -, dall'altro è la nuova figura (ma in realtà molto vecchia) del nazionalista antisemita che sta tornando in auge anche nella nuova Romania democratica.
Confesso che, fino a poco prima di partire per Bucarest, non avevo mai sentito nominare Norman Manea. L'ho scoperto per puro caso trovando, al Libraccio di via Balzan, una copia a metà prezzo del suo Clown. L'artista e il dittatore. Dovendo andare a Bucarest, l'ho comprato, attirato dalla quarta di copertina, perché volevo leggere una testimonianza sulla dittatura ceausista. Clown è interessante, ma è una raccolta di saggi di taglio diverso. Solo in seguito ho appreso dell'esistenza del Ritorno dell'huligano. E proprio quando ero a Bucarest ho letto, in Adevarul, che per questo libro Manea è stato insignito in Francia del premio Médicis.