Quest'anno sono stato sfortunato con il tempo, che è molto variabile, altalenando tra la pioggia e un timido sole e influenzando così il mio umore. Ho trovato comunque qualcosa da fare che corrispondesse a queste condizioni atmosferiche così poco gradevoli. L'altroieri ho iniziato la giornata con una visita al cimitero ebraico di Schönhauser Allee, all'altezza di Senefelder Platz. In tanti anni che vengo a Berlino, ci ero sempre passato davanti senza mai entrarci. In genere, quando viaggio, mi piace passeggiare per cimiteri: sono luoghi assolutamente tranquilli e adatti, forse anche più delle chiese, a distanziarci dalla frenesia delle città. Non appena ho varcato il cancello ha cominciato a cadere una pioggerellina sottile, come di piccoli aghi che mi battevano in faccia, non così forte da infastidirmi davvero ma sufficiente per bagnarmi gli occhiali. Poco dopo l'ingresso, in piedi su un blocco di pietra, un ragazzo si guardava attorno e gridava: "Daniel, Daniel!", chiamando qualcuno che era con lui. A parte un altro visitatore arrivato dopo, sono rimasto da solo a girare tra le lapidi, leggendone le inscrizioni e i nomi. Quasi tutti morti prima del 1939. Osservavo i nomi di quelli morti pochi anni dopo il 1933, gente che a settanta o ottant'anni ha fatto in tempo ad assistere all'ascesa del nazismo al potere. Oppure di quelli morti poco prima, ai quali invece è stato risparmiato quell'orrore. All'uscita mi sono accorto di avere commesso una gaffe. Gli uomini, infatti, dovrebbero entrare col capo coperto: il cartello che avvisa, però, è posto in modo che si vede uscendo e non entrando. Io l'ho tenuto coperto per la maggior parte del tempo, anche per ripararmi dalla pioggia, ma non sempre. E così mi spiego anche perché gli unici due ragazzi presenti avevano in testa un cappellino da basket.
Poi ho proseguito la mia esplorazione - iniziata anni fa - del passato stalinista di quella parte di Germania che è stata la DDR. Già nel 1994 ero andato a visitare la sede della "Stasi", il famigerato "ministero per la sicurezza statale" della DDR, definito la "spada" e lo "scudo" dello stato socialista, nell'imponente edificio della Normannenstraße a Lichtenberg. Ci sono tornato e l'impressione è stata forte come l'altra volta. Una parte dell'edificio è dedicata agli "strumenti di lavoro" della Stasi: apparecchi per spiare, registrare le conversazioni di nascosto, fotografare individui "sospetti" (cioè chiunque esprimesse qualche dubbio sulla bontà dello stato "dei contadini e degli operai"). Un'altra parte è dedicata alla storia del legame tra Stasi, partito unico e oppressione dei cittadini. In esposizione c'è anche tutta la paccottiglia di simboli, distintivi, stemmi, soprammobili, decorazioni che venivano assegnate a chi serviva degnamente il ministero. Ma la parte più interessante è al secondo piano, dove ci sono una serie di stanze che sono state conservate così come erano prima che all'inizio degli anni novanta i movimenti civici dessero l'assalto all'edificio perché venissero aperti gli archivi segreti e venisse smantellata la Stasi. Queste stanze comprendono i luoghi di riunione dei "collaboratori", la segreteria, lo studio privato del ministro Erich Mielke - con cucinino e bagno. Trasuda, da queste stanze, un odore di muffa e uno spirito che non sarebbe assurdo definire "piccolo borghese" nel senso peggiore del termine. In ogni caso si esce da questo luogo con l'angoscia che provoca constatare quello che succede quando la paranoia si fa sistema politica. Io consiglio che ci facciano una capatina quelli che cianciano delle prospettive ancora attuali del comunismo.
Ieri mattina, invece, mi sono diretto a sud, a Marienfelde, dove c'è il "Notaufnahmelager" - cioè il centro di prima accoglienza - in cui, dal 1953 fino alla fine degli anni ottanta, sono stati ospitati coloro che fuggivano dalla DDR. Anche questo, aperto al pubblico, è diventato un luogo della memoria nella lotta contro la dittatura. Nella prima stanza dopo l'ingresso ci vengono incontro i destini di singoli individui che, a un certo punto della loro vita, hanno deciso di andarsene dalla DDR. Sono per lo più storie tragiche: c'è chi, dopo aver chiesto di espatriare, è stato condannato a dieci mesi di carcere per - cito letteralmente - "öffentliche Herabwürdigung" (calunnia pubblica) della DDR; c'è chi, invece, negli anni cinquanta è stato espulso dall'Università per aver scritto una lettera in solidarietà delle proteste in Ungheria. A Marienfelde c'è anche una parte riservata a quei pochi che hanno compiuto il cammino inverso, trasferendosi dall'est all'ovest: 600.000 persone - per lo più per motivi privati, come un matrimonio - contro 4.000.000.
Dopo queste storie private, c'è il più ampio quadro storico: in un'altra sala vengono descritte le procedure a cui venivano sottoposti coloro che arrivavano al centro di accoglienza di Marienfelde. Al piano superiore sono esposti in teche gli oggetti di uso quotidiano, mentre una serie di fotografie documentano la vita all'interno del centro. Non mancano alcune stanze che sono rimaste arredate come lo erano allora, con letti a castello, tavolini e armadi.
Se ne esce, da entrambi i "musei", con l'immagine di uno stato che, pur dichiarandosi dalla parte di "lavoratori" e "contadini" - sostenendo anzi di esserne la perfetta espressione - e pretendendo di incarnare le migliori tradizioni umanistiche della Germania ("das gute Deutschland", insomma, di cui parlava anche Brecht nel suo Kinderhymne), altro non faceva che opprimere tutto ciò che, nell'individuo, si discostava dal suo progetto di uomo collettivo. Se ne esce con l'angoscia di chi si sente soffocato alla sola idea di affogare in una totalità di cui lui non è altro che un ingranaggio: in entrambi i centri sono molte le testimonianze di irreggimentazione a cui erano sottoposti i "cittadini" della DDR sin da bambini. Impressionante e tipico è l'esempio di un piccolo asilo privato aperto nel 1980 in un appartamento di Prenzlauer Berg da alcune famiglie che volevano sottrarre i figli all'educazione militaristica e pesantemente ideologica dello stato socialista, affidandoli a un'insegnante che era stata licenziata per divergenze ideologiche. Hanno dovuto subire minacce e ricatti, resistendo per tre anni, finché un giorno le autorità hanno fatto sgomberare l'edifico e murare porte e finestre, chiudendo così l'esperimento - alla faccia di tutte le "libertà" garantite e decantate anche nella Costituzione della DDR. E niente esemplifica meglio questa pretesa di possesso del singolo da parte dello stato in quanto collettività come il fatto che nella DDR non esistesse un "diritto individuale alla rinuncia della cittadinanza" e all'espatrio: chiunque chiedeva di poter espatriare era un potenziale traditore della causa e come tale era trattato. Se alla fine gli veniva garantito di uscire legalmente dalla DDR, gli veniva automaticamente anche tolta la cittadinanza, in quanto "persona non grata".