Ssssss... Silenzio, vi prego! Che nessuno osi fiatare: siamo appesi a un filo. Forse le fanno, forse le fanno. Sssss...
(Perché però venga abolito l'ordine dei giornalisti occorre più di una riforma: occorre un miracolo).
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Ssssss... Silenzio, vi prego! Che nessuno osi fiatare: siamo appesi a un filo. Forse le fanno, forse le fanno. Sssss...
(Perché però venga abolito l'ordine dei giornalisti occorre più di una riforma: occorre un miracolo).
20:12 in Incursioni nella polis | Permalink | Comments (1)
Leggo che Roberto Villetti ha rassegnato le dimissioni da presidente del gruppo parlamentare della Rosa nel Pugno e, a quanto pare, lo stesso progetto della Rosa naviga in cattive acque, un piccolo vascello cannoneggiato, ancor più che dai suoi "nemici", da una parte della stessa ciurma. Sintomatiche sono state, per esempio, le dichiarazioni di alcuni vecchi esponenti del Psi - come Cesare Marini o Ottaviano Del Turco - che ancora favoleggiano di un' "unità socialista" che, a loro dire, dovrebbe ricreare l'età dell'oro di prima della caduta. La RnP dovrebbe essere, secondo loro, lo strumento per accedere a questo tempo mitico.
Il mio entusiasmo per la nascita della Rosa nel Pugno derivava innanzitutto dai trentun punti del programma di Fiuggi: erano una cosa nuova, che superava la realtà dei radicali italiani e dell'SDI - anche se non so con precisione quali fossero i programmi e le idee dell'SDI prima di confluire nella Rosa nel Pugno. E per me la RnP è quella "cosa" lì: 31 punti avanzatissimi di un programma liberal-socialista che in Italia non si era ancora visto. Questi punti sono tuttora validi, perché non sono ancora stati realizzati: non riesco a credere che si sfasci un progetto solo per via di un po' di scazzi interni. Se qualcuno ha a cuore la realizzazione di un'Italia che sia contemporaneamente più moderna, più giusta, più laica, dovrebbe semplicemente rimboccarsi le maniche e lasciar perdere le rancide - e vecchie - dinamiche che rispondono a beghe di occupazione di potere.
Mi rendo conto tuttavia che il difetto è all'origine. La Rosa nel Pugno è nata come la sommatoria di radicali e SDI intorno al "programma di Fiuggi", tenendo però in piedi come entità separate sia radicali che SDI. Questo peccato originale si è tradotto nella formazione delle liste elettorali, che obbedivano al rigido principio: un radicale, un socialista, un radicale, un socialista - con capolista in tutt'Italia Bonino/Boselli per la Camera e Pannella/Intini per il Senato. E' poi continuato nell'assegnazione degli incarichi di governo. Leggo infatti sul sito della RnP che le nomine nelle commissioni bilaterali sono state spartite seguendo una specie di "manuale Cencelli" interno: tre ai radicali e tre all'SDI. Persino i "nuovi arrivati" sono stati presi "in quota" o ai radicali o ai socialisti. A me questo pare un modo di agire in vecchio, vecchissimo stile partitocratico.
Forse bisognava procedere, sin dall'inizio, in modo più radicale. Se la Rosa nel Pugno è un progetto inedito - e lo è -, bisognava prima sciogliere sia l'SDI (che ormai era in stato comatoso, a dire il vero) che Radicali Italiani. Poi, in base al programma, gli individui avrebbero aderito - da ex-socialisti o da ex-radicali (sottolineo l'ex) - alla Rosa nel Pugno, costituitasi così anche formalmente in un soggetto nuovo. Chi non avesse accettato l'operazione - vuoi perché auspicava la mitica unità socialista, vuoi perché liberista duro e puro, vuoi perché anti-americano e anti-atlantista in politica estera, vuoi perché allergico al laicismo radicale - avrebbe potuto confluire in altri progetti politici, come altri hanno fatto. Chi fosse rimasto, però, e iscritto agli SDI o ai Radicali, avrebbe visto trasformarsi tessere e sezioni di socialisti e radicali in tessere e sezioni della Rosa nel Pugno. Da questo azzeramento si sarebbe potuto ripartire, appoggiandosi sulla solida base dei trentun punti di Fiuggi. Certo, occorreva un atto di coraggio quasi suicida: ma chi, se non i radicali, avrebbe potuto darne prova?
11:48 in Incursioni nella polis | Permalink | Comments (8)
Ricevo da una lettrice assidua e silenziosa di questo blog una mail in cui mi parla del gay pride che si è tenuto a Catania ieri. Una manifestazione che è passata un po' in sordina rispetto ai più "blasonati" pride di Torino e di Roma, ma altrettanto importante, soprattutto per l'azione di disturbo che è avvenuta. A chi sostiene che queste manifestazioni non servono per ottenere maggiori diritti, spero che le sue parole servano da avvertimento. E se anche queste "carnevalate" - come dicono certuni - non servissero a nulla, hanno comunque il valore di testimonianza e di opposizione politica a chi, con la sua omofobia (spesso istituzionalizzata), aiuta a fecondare il terreno in cui prosperano i figuri di estrema destra che hanno tentato di bloccare il pride catanese. Riporto, con la sua autorizzazione, le sue parole:
"E a proposito della Sicilia... stasera ti scrivo anche per segnalarti che si è appena svolto, un paio di ore fa, il Gay Pride a Catania. E' stato bello ma anche difficile, ci sono stati momenti di tensione per via di un controcorteo organizzato, senza autorizzazione, da Forza Nuova, i cui adepti hanno bloccato la strada al corteo del Pride sventolando bandiere con croci celtiche e urlando slogan come: 'le perversioni vanno curate e non manifestate'... e intimandoci di lasciare la Via Etnea libera perché ci devono passeggiare le famiglie con bambini.
La polizia dice che non se l'aspettava, e quindi aveva poche forze così abbiamo dovuto aspettare pazientemente più di un'ora prima che fosse contattato il questore e la situazione si sbloccasse. Certo, questi fascistelli erano pochi, ma ben organizzati con striscioni e megafono e sono riusciti a creare tensione e a farci stare fermi, il tutto con i quasi 40 gradi, in piedi sulla pietra lavica nera di via Etnea che emana il calore accumulato durante il giorno.
Sono sicura che domani sul nostro assurdo giornale locale La Sicilia (...) ci sarà la solita foto pittoresca (forse neanche quella) e nessuno dirà nulla dell'attacco di Forza Nuova. Tra l'altro io non ho visto giornalisti, mi è sembrato forse di intravedere un operatore tv, ma magari era un privato...
Questo te lo dico perché secondo me il Pride di Catania è un pride difficile, qui al sud la tolleranza anche minima è ancora lontana e le reazioni dei catanesi vanno dall'indifferenza (facciamo finta di niente) allo sdegno, al tentativo di attacco violento come quello di oggi."
Non avevo molta voglia di andare a vedere Le temps qui reste di François Ozon e pensavo di saltare il turno. Non perché non apprezzi Ozon - tutt'altro -, ma perché, da quanto avevo letto, temevo che questo film mi avrebbe depresso. Chi ha voglia - mi dicevo - di vedere la storia di un giovane gay, trentunenne, a cui viene diagnosticato un tumore diffuso che lo condanna a morte certa? Non sarà un film lacrimevole - e, soprattutto, non sarò io a non riuscire a trattenere il pianto?
Quando usciamo dal cinema, chiedo a M. se secondo lui ha una qualche importanza il fatto che il protagonista sia gay e, nello stesso tempo, azzardo una spiegazione un po' tirata per i capelli: Romain (Melvil Poupaud) è il gay di successo, giovane e ricco, che non ha avuto problemi a essere accettato per quello che è, nemmeno in famiglia. Quello che non gli riesce, invece, è il "coming out" sulla sua malattia e sulla sua morte. Secondo M. non è così, ma Le temps qui reste è - finalmente, dovremmo dire - uno di quei pochi film in cui l'omosessualità del protagonista è semplicemente una caratteristica tra le altre. "Tanto varrebbe domandarsi, allora, perché un castano e non un biondo". Riflettendoci bene, credo che M. abbia ragione: al posto di Romain potrebbe esserci un altro uomo, che lascia la sua fidanzata, scopre di essere malato, non riesce a parlare della sua malattia e della sua morte imminente, e non cambierebbe nulla. E' l'esperienza umana che sta al centro della narrazione e che arriva allo spettatore, indipendentemente dall'orientamento sessuale, suo e del protagonista, la cui rappresentazione avviene in modo nuovo e del tutto "naturale" - cioè senza che sia quello l'aspetto che viene problematizzato.
Molto più significativa è invece, per tutta la durata del film, la presenza dei bambini. Se io fossi al posto di Romain, è probabile - ma sto comunque razionalizzando - che proverei un certo astio nei confronti dei bambini che, ai miei occhi di moribondo, rappresenterebbero la vita che inizia e, quindi, una sorta di affronto alla mia vita che finisce. Non è così per Romain che, avendo sempre amato i bambini, li ama ancor di più ora che sta per morire. Si ha quasi la sensazione che veda in loro una prosecuzione ideale della sua vita che si sta spegnendo, come se in realtà la sua stessa vita fosse parte di una vita più grande - vorrei dire "un'energia", se non rischiasse di suonare troppo New age - che non finisce con la sua morte. Oltre ai bambini generici c'è però anche un altro bambino che appare in continuazione nel film: è lo stesso Romain da piccolo, la cui presenza mette in contatto Roman da adulto con la memoria del suo passato. Mi sembra quindi che una sorta di corrente elettrica attraversi Roman, collegando il suo passato privato con il futuro, rappresentato proprio da quell'infanzia che osserva, incantato, intorno a sé. In questo coagularsi di passato e futuro si ha l'impressione che, nonostante la morte - nonostante la consapevolezza della morte -, Romain trovi una riconciliazione e una sua forma di serenità: l'immagine conclusiva del film, con la spiaggia che al tramonto si svuota a poco a poco lasciandolo solo e disteso sulla sabbia, pare avvalorare questa interpretazione.
Ancora una volta ho ammirato la bravura con cui François Ozon sa maneggiare diversi registri. Il grottesco o il farsesco di altri film qui lascia spazio al registro drammatico che però Ozon riesce a trattare con senso dell'equilibrio. Le temps qui reste non scade mai nel facile patetismo, malgrado il tema vi si presti: Ozon è un regista che cammina su un filo teso e riesce a mantenersi in bilico. Porto solo un esempio, che evidenzia come il regista proceda per sottrazione, in modo elusivo: la "condanna a morte" di Romain. Lo spettatore apprende della malattia del protagonista direttamente dalla bocca del medico, nello stesso momento in cui lo viene a sapere anche Romain. Da quel punto in poi Ozon ci mostra Romain solo con se stesso e con lo smottamento interiore che quella rivelazione gli ha provocato, ma evita accuratamente di farci vedere quando lo dice a (pochi) altri. La macchina da presa arriva sempre dopo che lui l'ha dichiarato. Quando all'inizio fa visita alla nonna (Jeanne Moreau), non assistiamo alla scena in cui lui le dice che morirà. Quando va dal notaio per lasciare in eredità tutti i suoi beni al figlio che nascerà alla coppia con cui lui ha agito da padre naturale per rimediare alla sterilità del marito, intuiamo che lui ha già detto loro che dovrà morire - ma anche qui questa scena non viene mostrata. La scena che più si avvicina a una dichiarazione esplicita è quella con l'ex fidanzato, Sascha (Christian Sengewald), quando si porta la sua mano al petto e, indicandogli il cuore, gli dice: "Il bat encore" - Batte ancora. Questa sobrietà narrativa è il miglior antidoto ai rischi del patetismo.
21:40 in Visti, letti, ascoltati | Permalink | Comments (10)
Questo è un vero e proprio coming out: un politico mostra la folta pelliccia che ha sullo stomaco. Sul Corriere della Sera di oggi c'è un'intervista con Francesco Speroni da Busto Arsizio, il quale - dopo aver detto che gli italiani gli fanno schifo per come in maggioranza hanno votato al referendum costituzionale - dichiara che vorrebbe tanto emigrare in Svizzera (in Canton Ticino, ovviamente, perché probabilmente gli tira troppo il culo, mi si perdoni la finezza, dover studiare francese o tedesco). Quando, forse ispirato da ciò che scrisse un blogger, il giornalista gli fa notare, cercando di provocarlo: "In più [in Svizzera] hanno anche il matrimonio gay", Speroni da Busto Arsizio risponde, in maniera sorprendente e inattesa:
"Ma chissenefrega, tanto arriverà anche qui. E comunque meglio un paese federalista con i matrimoni gay che questa Italia centralista".
A me questa pare una dichiarazione epocale: anche loro sanno, dunque, che persino in Italia arriveranno i "matrimoni gay" e non rappresenteranno l'armageddon della società e la fine dell'universo tutto. Un coming out, insomma. Non che Speroni da Busto Arsizio riveli di essere omosessuale, questo no (per fortuna nostra), ma in sostanza rivela che tutte le opposizioni leghiste al matrimonio dei "culattoni" sono operazioni di facciata. In realtà non gliene importa nulla, nulla di nulla. Fanno solo finta, è puro tatticismo - e per i loro tatticismi sono disposti a sacrificare la vita delle persone (gay, nella fattispecie). Parafrasando la famosa poesia di Pessoa, mi verrebbe da chiosare: "il politico è un fingitore / finge così bene che finisce per credere / che è indignazione quell'indignazione che davvero sente".
Mi permetterei allora un consiglio ai leghisti: la smettano di essere qualunquisti e beceri, lascino perdere la farsa della secessione e della Padania, restino federali e imparino a essere davvero liberali (liberali nel senso di "liberal" e non "liberisti in salsa padana"), chissà che non conquistino qualche adesione in più al progetto di un'Italia federale. Resterebbe pur sempre il lombrosianesimo di Calderoli e Borghezio, ma in ogni raggruppamento c'è sempre lo scemo di turno.
17:53 in Incursioni nella polis | Permalink | Comments (5)
Le imprese inutili hanno un fascino insindacabile. E’ un’impresa inutile, da poco più di un mese, l’aver cominciato a studiare - amatorialmente - romeno.
Faccio molti passi indietro. Nel 1987 ero nel pieno della mia intossicazione per E. M. Cioran e quell’estate ero andato con un amico - che, povero, fu la vittima della mia infatuazione da “groupie” - a Parigi, dove non soltanto comprai in francese i libri di Cioran non ancora tradotti in italiano, ma anche un corso di romeno del benemerito editore tedesco Max Hueber: Rumänisch für Sie. Putroppo non comprai i dischi o le cassette e quando, rientrato in Italia, cominciai a studiarlo, lo feci un po’ come se fosse stata una lingua morta. Dopo poco tempo lo abbandonai, ricordando solo poche frasi e parole (Bună ziua; Am o durere de cap: Buon giorno; Mi fa male la testa). Poi cominciarono a tradurre in francese - e, successivamente, anche in Italiano - le opere giovanili che Cioran aveva scritto in romeno e io non pensai più al mio progetto balzano. Fino all’anno scorso, quando mi procurai il corso Il romeno senza sforzo (ovvero: Româneşte fără efort) dell’Assimil, la casa editrice francese specializzata in corsi di lingua, di cui avevo usato già “Lo spagnolo senza sforzo” per creare lo zoccolo duro del mio castigliano. E’ un metodo che consiglio - anche se non so se funzioni anche per lingue molto distanti dalle nostre.
Il mio lettore cd si è inghiottito un disco e non vuole più restituirmelo. Il cd è di Patty Pravo. Vorrà dire qualcosa?
14:25 in Irritazioni, disgusti, idiosincrasie | Permalink | Comments (4)
a|po|tro|pài|co: agg., atto a scongiurare o annullare gli influssi maligni: formula, gesto, monile a. (Secondo il De Mauro)
La terza proiezione della Nexus sui risultati del referendum costituzionale dà i no al 60,5 per cento e i sì al 39,5: mi pare già abbastanza plausibile affermare che hanno vinto i no. A questo punto potrei anche dire che il mio voto è stato un "gesto apotropaico": considerato che tutte le mie dichiarazioni pubbliche di voto si sono risolte in disastri - riassumendo: Scalfarotto alle primarie dell'Unione, il sì all'abrogazione della legge 40 nel referendum dell'anno scorso (che non ebbe nemmeno il quorum), il mio appoggio alla Rosa nel Pugno per le politiche, e se per le comunali di Milano ho volato basso Bruno Ferrante ha perso comunque (invero per il rotto della cuffia) e la RnP non ha avuto nemmeno un consigliere - dichiarare, da parte mia, che stavolta avrei votato sì può essere interpretato come un atto di generosità per far vincere i no e, per l'appunto, come "gesto apotropaico", per "scongiurare o annullare gli influssi maligni".
Sto scorrendo le dichiarazioni dei vari politici. Ne scelgo una, di una pulce politica, ma abbastanza rivelatrice e sintomatica di quello che accadrà. E' di Gianfranco Rotondi, leader (vabbe') della neo-Democrazia Cristiana: "Se si conferma la vittoria del 'No', per una volta sono d'accordo con l'onorevole Cento [dei Verdi]: di riforme non ne parliamo più. (...) Il popolo è sovrano, ha detto 'No'. Piuttosto che infilarci in un altro ventennio di chiacchiere, rassegniamoci: se vincono i 'No', ci siamo tolti almeno un pensiero per sempre. Niente Bicamerali, Costituenti, commissioni e tavole rotonde, la riforma della Costituzione per gli italiani non è una priorità, parliamo d'altro". Queste parole sono interessanti, perché Rotondi fa parte della Casa della Libertà e dice di avere votato sì. Si sta già formando lo schieramento trasversale dell'immobilismo paralitico. Quod erat demonstrandum?
16:41 in Incursioni nella polis | Permalink | Comments (5)
Di ogni libro ricordo le condizioni esterne che l'hanno portato in casa mia, sui miei scaffali, di casa in casa, e le condizioni interne - le spinte psicologiche, gli interessi o le urgenze del momento, l'apparente necessità di capire qualcosa di più di me o del mondo in quel momento - che mi hanno indotto a comprarli o a conservarli se provenivano da altre biblioteche private, smembrate in seguito alla morte del proprietario. Prendendoli in mano, uno per uno, uno dopo l'altro, per riporli - in ordine alfabetico e quindi, agli effetti della mia memoria e della mia sensibilità, alla rinfusa - ricevo molteplici scosse provenienti dal mio passato. E' un'aggressione costante, né desiderata né ricercata, quella che subisco mentre li ripongo. Mi capita in mano un volume e mi torna in mente un pezzo della mia storia: non posso evitarlo. A qualcuno succede la stessa cosa quando apre una scatola di scarpe in cui sono conservate vecchie fotografie ingiallite o quando sfoglia un album di immagini di famiglia. Io, che non ho in casa molte fotografie e quelle che ho non le riguardo spesso, provo lo stesso senso di perdita e di vago lutto maneggiando i miei libri: avverto che la sostanza del mio io di un tempo sta sgocciolando via, lentamente, come un liquido da un contenitore forato o come acqua da un lavabo chiuso da un tappo che non tiene. Questi libri che mi impolverano le dita man mano che li metto sugli scaffali diventano la misura involontaria della mia vita, come per Alfred J. Prufrock lo erano i "cucchiaini da caffè". Allora penso che, più che dalla stanchezza fisica, in questi giorni vengo messo alla prova da un altro tipo di disagio che si acuisce fino a diventare disgusto. Disgusto di me, del tempo che scorre - e forse scorre invano -, della vita intellettuale, dei libri stessi, della vita e della morte. Per un istante mi assale la nostalgia di un fuoco purificatore - nostalgia e resipiscenza al tempo stesso, come se fosse possibile un'altra vita.
21:29 in Due giri intorno al mio ombelico | Permalink | Comments (3)
Ecco, sono appena andato a stuprare la Costituzione, a smembrare e sfasciare lo Stato unitario e consegnarlo alla dittatura del Premier. E adesso spero ardentemente che vincano i "no", perché, seduto in poltrona, voglio godermi lo spettacolo delle lotte intestine tra le varie fazioni del no e vedere chi l'avrà vinta. Da pessimista, una piccola scommessa la farei anche, ma non voglio calpestare del tutto il tenue fiorellino della speranza, per chi ancora volesse coglierlo.
11:02 in Irritazioni, disgusti, idiosincrasie | Permalink | Comments (3)