"Sicuramente arriverà il giorno in cui ammetteremo un'ovvietà: ora la teologia è poco più di un ramo dell'ignoranza umana. Anzi, è ignoranza che ha messo le ali"
(Sam Harris)
Nel suo saggio The end of Faith. Religion, terror and the future of reason, Sam Harris formula un concetto importantissimo ma ancora troppo trascurato: il problema del mondo moderno non è soltanto il fondamentalismo religioso - di qualunque marca esso sia - ma è la fede religiosa in sé. In religione, infatti, la "moderazione" è un mito, in quanto i moderati sono tali non per i valori intrinseci della loro religione, ma perché ne ignorano i barbarismi e, al contrario, hanno assimilato i risultati degli ultimi secoli del pensiero umano. Ecco che cos'è, quindi, il moderatismo religioso: ignorare, senza volerlo ammettere, la lettera della legge divina. Partendo da questo dato di fatto - che era già stato evidenziato da Bertrand Russell nei suoi scritti sulla religione - Sam Harris analizza il legame tra le convinzioni prive di fondamento ragionevole che stanno alla base delle grandi religioni e la violenza che si è diffusa (e si diffonde) nel mondo per opera loro. Harris sostiene inoltre che, nel discorso politico, si sono fatte troppe concessioni alla fede, trattandola con un riguardo eccessivo, mettendola al riparo dalle critiche e producendo una serie di aggiustamenti della realtà. In realtà bisognerebbe essere più radicali, perché ciò che una persona crede ha riflessi anche pubblici e, a seconda di che cosa (e come) crede, così agisce.
Il "guaio" della fede (di ogni fede) è che va misurata con il mondo: esiste una relazione stretta tra le parole, i pensieri e ciò che riteniamo essere vero del mondo. Se le credenze sono rappresentazioni del mondo, quindi, devono avere una verificabilità nel mondo stesso: possiamo ritenere che un'affermazione è vera solo perché qualcosa, nella nostra esperienza del mondo, dimostra la verità dell'affermazione stessa. Ed è proprio qui - spiega Harris - che casca l'asino delle religioni. Se infatti dico: "Credo in Dio perché mi fa stare bene", questo non fornisce nessuna prova dell'esistenza di Dio e tra le due frasi non c'è connessione causale se non nell'apparenza grammaticale. Harris fa un altro paragone: io posso credere di avere, sepolto in giardino, un diamante delle dimensioni di un frigorifero. Questa "convinzione" mi farà stare bene, ma ciò non significa che il diamante ci sia davvero. Devo scavare e verificare. La fede religiosa, quindi, è una credenza non giustificata in questioni di grande importanza, specialmente quando riguardano qualche meccanismo grazie al quale alla vita umana verrebbero risparmiate le distruzioni del tempo e della morte. La fede religiosa, inoltre, si sottrae alla verificabilità, che dev'essere possibile nell'immediato e non "rimandata" a dopo la morte: l'ingegnere dice che il ponte resisterà e noi possiamo constatarlo quando questo è stato costruito. In che modo sono verificabili le affermazioni delle fedi religiose? In nessun modo - e quindi non hanno nessun rapporto con la verità.
Per questo motivo, la "libertà di credere" - posto che un concetto del genere sia davvero possibile - è minima. Una persona non è davvero libera di credere in un'affermazione destituita di fondamento. O lo è solo nel senso che è "libera" di credere in ciò che è falso. Scrive Harris: "Abbiamo nomi per coloro che hanno molte convinzioni per cui non c'è giustificazione razionale. Quando le loro convinzioni sono estremamente comuni, li chiamiamo 'religiosi', altrimenti è probabile che vengano definiti 'matti', 'psicotici' o 'illusi'". Questo non significa che tutte le persone religiose sono pazze - perché in realtà quando vivono nel mondo adottano giocoforza princìpi e convinzioni verificabili e razionali che non sono quelli delle loro religioni -, ma che le loro concezioni fondamentali lo sono: basti pensare al fenomeno dell'eucaristia. Se ci credesse una persona sola, sarebbe considerata pazza - ma siccome è un articolo di fede condiviso e che dura nel tempo, allora si chiude un occhio. Una sciocchezza irrazionale che però dura da secoli non diventa per questo più vera.
Il punto, però, non riguarda soltanto l'influsso della fede sulla conoscenza della realtà, ma anche sul modo in cui si agisce nella realtà. In parole povere: la fede religiosa ha effetti anche politici - e si tratta di effetti nefasti. Per restare nell'ambito del cristianesimo, non c'è dubbio che esso ha dato origine in primo luogo all'inquisizione, con la caccia all'eretico e all'apostata. E una lettura letterale del Vecchio Testamento non soltanto permette, ma addirittura esige che gli eretici vengano messi a morte. Il problema delle cosiddette "sacre scritture" è che molte delle sue possibili interpretazioni possono essere usati per giustificare atrocità in difesta della fede. La tolleranza nasce solo quando, a conti fatti, si rifiuta la letteralità dei "testi sacri" - ma nulla, in questi testi sacri, autorizza a farlo: questo è possibile, per così dire, solo assumendo una prospettiva esterna, e quindi anti-religiosa. La persecuzione delle streghe - altro grande ambito di attività dell'inquisizione - dimostra inoltre quale grado di credulità e di ignoranza fosse reso possibile dalla fede religiosa. Il secondo fenomeno originato dal cristianesimo - condiviso oggi anche dall'islam - è l'antisemitismo, che è un prodotto della fede cristiana. L'olocausto altro non è stato che il "frutto maturo" di questo antisemitismo (e Harris rovescia l'accusa di chi sostiene che l'olocausto fu l'estremizzazione di una certa concezione scientifica. Esso si limitò a usarne i mezzi, che erano disponibili a quel tempo: se io do - sostiene Harris - un cannocchiale in mano a una scimmia e questa lo usa per fracassarmi il cranio, questo non dimostra che il cannocchiale è un oggetto dannoso).
Tuttavia, se oggi il cristianesimo è diventato "tollerante" - non per merito suo, come si è detto, ma perché vi è stato costretto dai suoi critici e dai suoi avversari - c'è un'altra religione mondiale che è rimasta allo stesso stadio del cristianesimo del quattordicesimo secolo, ed è l'islam. Con la differenza, però, che ha a sua disposizione armi del ventunesimo secolo. Il capitolo centrale del saggio di Harris è dedicato proprio a questa religione, di cui non si conosce nemmeno la versione "moderata": un'affermazione che può sembrare controversa, ma che viene dimostrata con una certa dovizia di particolari, a partire dall'imperativo coranico che impone di punire l' "apostasia" con la morte. Un imperativo che è ben lontano dall'essere soltanto di facciata o teorico, come dimostrano la fatwa lanciata nei confronti di Rushdie una ventina d'anni fa e i pericoli che corrono quei pochissimi individui che, nel mondo musulmano, hanno dichiarato di essere atei e di avere abbandonato l'islam. Sam Harris elenca, in cinque pagine, tutte le offese contenute nel "Corano" e riservate agli "infedeli". Il culto della morte si evidenzia anche nella disponibilità molto diffusa - come dimostra un sondaggio condotto in diversi paesi islamici e riportato da Harris - a sostenere le azioni suicide in difesa dell'islam. Negare questo fatto significa dare prova di notevole cecità e di quello che, in inglese, si definisce "wishful thinking": vedere la realtà non come è, ma come vorrebbe che si fosse. Al riguardo Harris si richiama all'analisi che del fenomeno ha fatto Paul Berman nel suo libro Terrore e liberalismo - a cui io ero arrivato per altre vie - e accusa l'eccessiva arrendevolezza di una certa sinistra, propensa a giustificare - sebbene non in maniera diretta - il terrorismo. Sam Harris è un sostenitore della democratizzazione delle società islamiche e non esclude, in casi estremi, nemmeno il ricorso alla forza quando gli altri mezzi si siano dimostrati inefficaci.
Il quinto capitolo - intitolato "A ovest dell'Eden" - farà risuonare una nota familiare ai lettori italiani. Infatti, qui Harris si occupa dell'influsso dei fondamentalisti cristiani nella politica degli Stati Uniti, che non ne è del tutto immune. Potrà sembrare perversamente consolatorio leggere che anche laggiù c'è chi vorrebbe che il "peccato" fosse considerato "reato" (un "reato senza vittime", che - sostiene giustamente Harris - in realtà non è affatto un reato), con leggi che in alcuni stati vietano la sodomia o con norme proibizioniste sull'uso delle droghe leggere. Anche negli Stati Uniti vi sono pressioni, da parte di gruppi religiosi cristiani, per limitare la ricerca scientifica quando questa andrebbe contro i "princìpi cristiani". L'ultimo capitolo, invece - forse il più debole di tutto il libro -, tratta della possibilità di fondare una spiritualità e un'etica su basi razionali. In poche pagine Harris cerca di riassumere la complessità delle ricerche scientifiche sul funzionamento della coscienza umana e lo fa, per forza di cose, in modo incompleto. Un difetto minore, considerata la gran quantità di spunti di riflessione offerti dal saggio di Harris, che vale senz'altro la pena di leggere - e che varrebbe la pena di fare tradurre anche in Italia.