Ho cercato in rete la famigerata "circolare anti-Ichino" scritta un mesetto fa da Giovanni Naccari dell'ufficio giuridico della Cgil, ma non l'ho trovata. Peccato, perché volevo farmene un'idea di prima mano, non mediata dalla pletora di commenti che sono seguiti e dalla sconfessione, poi, da parte dello stesso sindacato. Non so, quindi, esattamente che cosa vi fosse scritto e quali fossero le "maledizioni" che conteneva all'indirizzo del giuslavorista Pietro Ichino, anche se - conoscendo un poco la Cgil - non fatico a immaginarlo: suppongo che sia stato accusato di voler smantellare il sindacato, distruggere i sacrosanti diritti dei lavoratori, consegnarli agli spietati padroni delle ferriere. Accuse così, da nulla, insomma. A volte la sinistra fa i suoi ruttini e i riflussi che salgono sono gas stalinisti, ma poco importa. Non mi ha aiutato la lettura di questo articolo pubblicato sull'Unità. Non aiuterebbe nessuno, credo, e questo la dice lunga sul tipo di informazioni che si possono ricavare leggendo sempre e soltanto un quotidiano - poco importa che si tratti dell'Unità e non, per esempio, del Giornale, poiché l'effetto sarebbe più o meno lo stesso. Fatto sta, comunque, che la polemica mi ha incuriosito e ho voluto documentarmi in altro modo.
Di Ichino avevo già letto alcuni pezzi sul Corriere della Sera, condividendone spesso le proposte - anche se mi rendevo conto che toccavano le abitudini mentali più incrostate del sindacato tradizionale -, ma stavolta ho deciso di leggermi il suo A che cosa serve il sindacato? Dirò subito che si tratta di un libro che mette da parte il tono professorale e riesce a parlare di sindacato facendosi leggere come un romanzo. Ichino parte da una vicenda concreta, che ricostruisce nei dettagli: la fine dell'Alfa Romeo di Arese e il mancato rilancio dell'area vengono messi a confronto con il successo di Sunderland, in Gran Bretagna, e di Spring Hill, negli Stati Uniti, dove invece l'industria automobilistica avanzata ha permesso non soltanto di salvare posti di lavoro, genericamente, ma posti di lavoro qualificati e - soprattutto - meglio pagati di quanto non lo siano in Italia. Qual è dunque la differenza rispetto ad Arese? Perché, per esempio, la Nissan non ha scelto Arese per impiantare una nuova fabbrica invece di farlo in Inghilterra? La differenza essenziale - spiega Ichino - è nel modello di contrattazione sindacale: il sindacato inglese (e quello statunitense) è stato capace di accettare una scommessa e di negoziare un progetto comune con il management. La differenza rispetto alla gestione sindacale della crisi di Arese è stridente: il sindacato si è irrigidito sulle proprie posizioni, scartando qualsiasi alternativa e puntando tutto sul "polo della mobilità sostenibile", un progetto a lungo termine - e quindi oggetto di politica industriale, più che di politica del lavoro - che, quand'anche fosse realizzato, non avrebbe potuto risolvere le esigenze occupazionali - che invece richiedevano soluzioni a breve termine. C'è stato inoltre un uso spregiudicato, da parte dei sindacati italiani, della protesta attraverso l'illegalità - occupando strade, autostrade, linee ferroviarie - che non ha di certo aiutato a rafforzarne le presunte ragioni. Ma il punto è un altro: se anche una scommessa simile si fosse proposta ad Arese, non si sarebbe potuta raccogliere perché il sistema di rappresentanza sindacale italiano non lo consente. Un'esposizione concisa delle storture di questo sistema - che non consente una contrattazione in deroga ai contratti collettivi nazionali (e, come sottolinea Ichino, "in deroga" non significa necessariamente "al ribasso") - si trova anche in questa conversazione tra Ichino ed Eugenio Scalfari, dove Ichino fornisce buoni argomenti per una riforma del sistema di contrattazione sindacale. Rifiutare questa possibilità è, secondo me, una manifestazione di una certa ipocrisia tutta italiana: si preferisce salvare il "principio", anche se per farlo si promuove, di fatto, il lavoro nero, piuttosto che regolare in modo diverso i contratti di lavoro facendo riemergere - e quindi, legalizzandoli - i lavori sommersi.
Nel suo libro Ichino delinea, in sostanza, due modelli di contrattazione sindacale. Si tratta dei due estremi, naturalmente, perché la realtà si muove su una linea che va dall'uno all'altro. Il primo lo chiama modello "alfa", persegue la sicurezza ed è caratterizzato da un alto contenuto assicurativo a cui corrispondono livelli retributivi bassi ma certi, una maggiore propensione al conflitto e una rivendicazione e la difesa di diritti acquisiti. Il secondo è invece il modello "omega" - praticamente sconosciuto in Italia - che ha invece basso contenuto assicurativo, ma preferisce gestire la scommessa comune tra imprenditori e lavoratori, lasciando maggior spazio a incentivi individuali e, quindi, a una distribuzione dei redditi - in caso di buoni risultati - più consistente. Entrambi i modelli sono legittimi, ma in Italia lo sbilanciamento è quasi tutto verso il primo e non è praticamente possibile spostarsi verso il secondo, proprio perché qualsiasi proposta in tal senso è ingabbiata e paralizzata dall'obbligatorietà - e dall'inderogabilità erga omnes - del Ccnl. E' anche per questo che un caso come quello della Nissan di Sunderland in Italia non sarebbe possibile. Tuttavia, sostiene Ichino, le riforme sarebbero possibili e al modo di tradurle in pratica Ichino dedica quello che è forse il capitolo più tecnico del libro.
In Italia si privilegia dunque la conflittualità e lo strumento principe per la difesa dei diritti dei lavoratori è lo sciopero. L'ultimo capitolo di A che cosa serve il sindacato? mette proprio in dubbio che lo strumento dello sciopero, usato a sproposito, sia davvero così utile. Ichino compie un lungo excursus negli scioperi avvenuti soprattutto nel settore chiave dei trasporti e l'immagine che ne esce è catastrofica. Non soltanto c'è un uso dissennato di questo mezzo, ma si tratta di un uso che non ha pari in nessun altro paese europeo - e non si può sostenere che paesi come la Svizzera o la Germania siano paesi in cui i lavoratori sono vessati o che, comunque, non abbiano raggiunto condizioni retributive persino migliori che in Italia. Pare infatti che si sia imposta, in Italia, una concezione per cui lo sciopero è un "diritto in sé", usato come un'arma - spuntata, in effetti - anche per cercare di risolvere diatribe che sono tutte interne (spesso lotte di potere tra i sindacati maggiori e le numerose sigle sindacali minori, il cui senso di responsabilità è ancora più ridotto). Lo sciopero è diventato una "routine", impiegato anche quando gli accordi e il nuovo contratto nazionale sono già stati firmati e, quindi, ci si aspetterebbe una certa pace sindacale (ma in realtà, con i sindacati cosiddetti autonomi si arriva all'assurdo che sigle senza alcuna rappresentanza scioperano dopo gli accordi firmati dai sindacati unitari, dei cui effetti godono tutti, inclusi coloro che poi scioperano per le sigle minori). Gli esempi forniti da Ichino sono illuminanti e, a volte, paradossali. Uno dei più interessanti riguarda lo sciopero del 1° dicembre 2003 dei lavori dell'Atm, l'azienda pubblica di trasporti milanese, quando la mattina - contro ogni aspettativa e contro ogni regolamentazione - nessun mezzo di trasporto uscì dai depositi e fu proclamato uno sciopero a oltranza che mise in ginocchio la città. Quando, parlandone con alcuni colleghi, dichiarai la mia opposizione a una forma di protesta simile (soprattutto perché la ritenevo e la ritengo non solo controproducente, ma anche inutile), uno di loro - della vecchia sinistra comunista - mi apostrofò scherzosamente con l'epiteto di "anarco-individualista" (e mi conforta leggere cose come questa, che mi confermano nella mia opinione). Ora Ichino spiega che, nel caso di uno sciopero del genere, gli unici a perderci sono gli utenti - che non possono fare nulla. L'azienda, viceversa, ci guadagna - ed è questo il paradosso: non paga le retribuzioni per il giorno di sciopero, risparmia sugli abbonamenti già incassati e non usati per quel giorno (perché l'introito derivante dalla vendita dei singoli biglietti è abbastanza irrilevante), e - poiché le aziende pubbliche di trasporto lavorano costantemente in perdita e sono finanziate dal denaro pubblico - riceve in più comunque quel denaro pubblico che le spetta. Come se non bastasse, per un giorno non deve nemmeno movimentare i mezzi (tram, autobus, filobus, metropolitane), realizzando un ulteriore risparmio di carburante, elettricità, usura dei mezzi. Lo sciopero, che dovrebbe colpire l'azienda, finisce per favorirla. Un altro esempio riguarda invece gli scioperi dell'Enav - i controllori di volo -, una delle categorie più "litigiose" del paese, una di quelle che ha proclamato più scioperi nel giro degli ultimi anni. Un caso unico in Europa. Spiega Ichino che quando scioperano i controllori di volo, vengono sì cancellati i voli in partenza e in arrivo in Italia, ma qualcuno deve pur restare a dirigere il traffico aereo in transito sui cieli italiani. Basta una minima presenza, eppure per garantirla tutti i controllori vengono comunque pagati anche se sono in sciopero. Si tratta dunque di scioperi che a chi li mette in atto non costano assolutamente nulla e che quindi non fanno che aumentare in maniera parossistica la litigiosità della categoria: basta leggere l'elenco degli scioperi riportati da Ichino, con le fumosissime giustificazioni, per rendersene conto e inorridire. "Un sistema di relazioni sindacali nel quale uno stillicidio di scioperi come questo dura da anni, e non viene interrotto dagli accordi che vengono stipulati, è evidentemente un sistema che non funziona e che va riformato dalle radici. Difendere questo sistema non è una scelta 'di sinistra': è soltanto una sciocchezza." (Il corsivo è mio).
A questo punto Ichino formula anche una domanda scomoda: perché il centrodestra - che in teoria e nell'immaginario popolare (oltre che nella vulgata di sinistra) sarebbe così avverso ai diritti dei lavoratori - non ha fatto nulla in cinque anni di governo (e, anzi, nel caso di Alitalia persino il ministro Maroni - leghista e antistatalista a parole - ha riaperto la trattativa con il Sult nel caso di Alitalia, dopo che questa - per opera del suo amministratore delegato Cimoli - l'aveva chiusa)? Commenta Ichino - e vale la pena di riportare l'intero passo: "La realtà è che una sinistra prigioniera dei propri slogan genera una colossale rendita di posizione per una destra che ha le idee chiare sul come smontare il codice di procedura penale ma non sul come regolare in modo efficiente il sistema delle relazioni sindacali. Gli sbarramenti eretti da sinistra contro ogni intervento efficace su questa materia consentono ala destra di starsene con le mani in mano senza pagare pegno per questo. Lo slogan che blocca la sinistra è, ancora una volta, quello dei 'diritti': tutti fondamentali, irrinunciabili, intangibili, sacri. Sacri e intangibile è pure il diritto di sciopero. Così diventa sacro - e guai a chi lo tocca - anche il 'diritto' di sette controllori di volo di prendere in ostaggio quando pare a loro migliaia di altri lavoratori. Poco importa che i controllori di volo siano tra i lavoratori pagati di più e che lavorino di meno rispetto a tutti gli altri di analogo livello professionale. Sacro diventa, più in generale, un ordinamento di diritto sindacale che premia il conflitto e penalizza l'approccio cooperativo". Ora è comprensibile perché le idee di Ichino siano, per parte del sindacato italiano, come l'aglio per i vampiri. Lo scandalo consiste soprattutto nel dire queste cose da sinistra, dove ancora oggi si rischia di ricevere schizzi di fango ed essere oggetto di derisione (nemmeno troppo velata) quando qualcuno osa definirsi "socialdemocratico". Costa meno vagheggiare una palingenesi sociale o l'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, naturalmente in un futuro così lontano che non vale nemmeno darsi pena di precisare quando verrà, perché intanto è un po' come la seconda venuta di Cristo per i credenti: un atto di fede.
Pietro Ichino non si ferma alla critica dell'esistente, ma fa anche qualche proposta concreta. Una delle più interessanti - e praticabili - è quella dello "sciopero virtuale", che sarebbe utile soprattutto nell'ambito dei servizi pubblici: "durante il periodo di agitazione il servizio viene svolto regolarmente, ma i lavoratori che vi aderiscono rinunciano alle proprie retribuzioni e l'azienda si obbliga a devolvere a un'iniziativa socialmente utile una somma pari a un multiplo dell'ammontare delle retribuzioni stesse". I vantaggi sono evidenti: l'azienda subisce un danno economico, perché è costretta a pagare, mentre gli utenti non perdono il servizio e possono più facilmente solidarizzare con le cause dello sciopero - che possono essere rese note con annunci pubblicitari, per esempio, pagati attraverso il denaro versato in luogo delle retribuzioni. E' evidente però che, in questo caso, le motivazioni dello sciopero devono essere ben solide, perché il lavoratore si impegna, per sostenerle, a lavorare gratis, e il sindacato che lo propone, a sua volta, deve avere una credibilità. Uno sciopero del genere, infatti, sarebbe improponibile per delle mere scaramucce di potere o di equilibri interni alle sigle sindacali. Inoltre favorirebbe il principio di responsabilità individuale: in uno sciopero tradizionale, basta starsene a casa, non occorre dire niente. Vale il silenzio-assenso. Qui, invece, occorre un atto positivo da parte di chi lavora: è un mezzo più trasparente e più democratico, adatto a un paese maturo. Mi chiedo soltanto: riuscirà l'Italia a maturare a un punto tale da rendere praticabili queste proposte? In ogni caso, lungi dal maledire le idee di Pietro Ichino, sarebbe utile che qualcuno si prefiggesse anche di tradurle in pratica e ne facesse un programma politico. Io una speranza, in questo senso, ce l'ho e ne ho già scritto.
ottimo post. andrò a cercarmi questo libro.
Posted by: cascade | 13/03/2006 at 09:13
Fallo (nel senso di imperativo del verbo fare). E scansati per evitare le reazioni dei duri e puri :)
Posted by: stefano | 13/03/2006 at 09:22
frega un cazzo delle reazioni.
ieri un collega mi ha chiesto di entrare nel sindacato. spero/credo che i 45 secondi successivi di risate e il ma vaffanculo finale siano stati interpretati nel modo giusto.
Posted by: cascade | 13/03/2006 at 09:35
Gli sbarramenti eretti da sinistra contro ogni intervento efficace su questa materia consentono ala destra di starsene con le mani in mano senza pagare pegno per questo.
quando sono brillo (come iersera) ripenso meglio alle cose. ti volevo dire che questa frase secondo me contiene il peggiore dei malvezzi della sinistra europea. non mi sembra una ragione sufficiente quella di dare scacco alla destra, per fare qualcosa. in tutta sincerità mi dà di riformismo fine a sé stesso. viceversa, sarebbe necessario che chi ha fatto della capacità di allargare lo sguardo una questione a parole irrinunciabile (internazionalismo etc) sapesse guardare almeno al di fuori dei cancelli della sua fabbrica.
non mi piace il riformismo, specie quello fine a sé stesso. e su molte questioni non capisco i radicali, che mi toccherà probabilmente votare solo perché condividiamo il fastidio per il pastore tedesco e per il suo gregge.
Posted by: cascade | 14/03/2006 at 10:49
sono d'accordo, ma avrei gradito qualche accenno - sia da parte di Ichino nel libro che da parte Tua nel post - anche alla responsabilità della parte datoriale. Che l'Enav e la municipalizzata dei trasporti non riescano a realizzare un piano industriale capace di motivare e coinvolgere il personale passi, ma che la stessa mancanza di appeal dei piani e dei programmi riguardi l'impresa privata è grave. E soprattutto, (pag.64) la politica industriale chi la fa?
Posted by: Gems | 23/05/2006 at 17:30