Il traduttore letterario, più o meno esperto, sogna il manuale per eccellenza, quel manuale che - come i manuali di istruzioni dei macchinari - gli insegnino a fare la traduzione perfetta o che, almeno, gli suggeriscano tutti quei trucchi che possano facilitargli il lavoro. Pur non essendo un traduttologo incallito, ho letto qualche volume, coltivando sempre la speranza che la conoscenza teorica si ribaltasse poi in un'abilità pratica. In genere sono rimasto abbastanza deluso: i "trucchi" del mestiere - posto che ci siano, perché cambiano con il cambiare del libro che si traduce - si imparano di volta in volta. La riflessione teorica è utile, certamente, ed è anche interessante, ma viene sempre dopo la pratica traduttoria. In alcuni casi non serve a niente, così come riflettere sui limiti della scienza (o di qualsiasi altra disciplina) non è esattamente come praticarla, quella disciplina, e nemmeno aumenta il sapere oggettivo in quel campo. Mi sono così accostato a Tradurre l'inglese di Tim Parks con l'aspettativa di chi vuole avere suggerimenti concreti, basati sulla prassi e non solo su teorie linguistiche di vario genere. Mi ha aiutato nel mio lavoro? Ne dubito, anche se questo volume di Parks non è per nulla astratto ed è anche, spesso, davvero coinvolgente - e non soltanto per chi fa il traduttore, ma anche per chi si interessa di letteratura e, pur non leggendo in lingua originale, si interroga sui rapporti tra il testo (tradotto) che gli capita tra le mani e l'originale in lingua (nel caso specifico, in inglese).
Tim Parks ha insegnato - e, forse, ancora insegna - proprio traduzione allo Iulm di Milano e Tradurre l'inglese nasce come prolungamento editoriale della sua esperienza di docente. Più che un testo sulla tecnica della traduzione è un libro di critica letteraria, una critica che nasce dall'interpretazione e dalla valutazione dello scarto tra la lingua d'arrivo e la lingua di partenza e che cerca di rispondere all'annosa domanda: in che misura la lingua del testo originale è veicolo del "messaggio" che l'autore vuole trasmettere, in che misura un certo contenuto passa proprio perché si usa una certa forma e non un'altra, e, infine, quanto si perde di questo contenuto indissolubilmente legato alla sua forma linguistica una volta che il testo viene tradotto in italiano? A questi interrogativi Parks cerca di dare una risposta confrontando puntualmente, parola per parola, estratti di romanzi di noti autori di lingua inglese nella loro versione originale e in una traduzione in italiano. Parks, insomma, fa le pulci all'italiano e i risultati sono, in ogni caso, illuminanti (anche se, sia detto per inciso, io non avrei voluto essere uno dei traduttori il cui testo è stato sottoposto a un esame così attento). Gli autori scelti sono D. H. Lawrence (Women in Love), James Joyce - dal più accessibile Gente di Dublino al più problematico Ulisse -, Virginia Woolf (Mrs Dalloway), Samuel Beckett, Barbara Pym, Henry Green. In che misura le soluzioni adottate dai vari traduttori italiani rendono giustizia all'originale e, soprattutto, quanto sono in grado di restituire nella lingua di destinazione la complessità dell'originale? Uno dei problemi centrali è tutto ciò che, nell'originale, rappresenta uno scarto - voluto e, dunque, portatore di un significato e di una poetica - rispetto al linguaggio standard. L'uso, normalmente "scorretto" secondo i canoni della grammatica inglese, di certe reggenze dei verbi da parte di D.H. Lawrence crea, per esempio, una tensione interna alla narrazione ed è funzionale alla descrizione di certi personaggi o di certi ambienti. Ecco perché appiattirsi, nella traduzione italiana, su un registro e un uso standard della lingua significa "tradire" il testo e mutarne il significato. Nella traduzione di un testo la tendenza, sottolinea comunque Tim Parks, è quasi sempre alla "normalizzazione" e alla riduzione linguistica: le forme più inconsuente, i termini semanticamente più ricchi - l'inglese favorisce l'uso di onomatopee o di un ritmo più sostenuto - lasciano spazio a espressioni magari corrette, ma più scialbe. In realtà - aggiungo io - non si sa mai esattamente quanto il traduttore sia responsabile di questo appiattimento, poiché il testo pubblicato in un'altra lingua viene, prima di essere dato alle stampe, manipolato da diverse persone. Interessante è il caso, presentato da Tim Parks, dello scrittore inglese Henry Green, i cui romanzi sono caratterizzati da un linguaggio fortemente "eversivo" rispetto alla norma standard. Parks cita la frase iniziale del romanzo Party Going: "Fog was so dense, bird that had been disturbed went flat into a balustrade and slowly fell, dead at her feet" che, come si capisce subito, forza tutte le regole dell'inglese. Questa frase - dice Parks - è stata resa in questo modo nella traduzione italiana: "Era nebbia così densa, l'uccello che era stato disturbato sbatté contro una balaustrata e cadde lentamente, morto, ai suoi piedi". Un italiano insolito, ma non scorretto: ebbene, questa traduzione è stata rifiutata da Adelphi perché "non suonava italiano". Per essere accettata, dunque, la traduzione doveva piegarsi a una scorrevolezza che avrebbe tradito pesantemente l'originale inglese, il cui tratto fondamentale è proprio la violazione delle regole linguistiche. Qui il traduttore aveva fatto il suo lavoro - cercando comunque di addomesticare la sintassi -, ma l'editore, insoddisfatto, non è stato in grado di capirlo e di accettarlo.
Alla fine, nell'ultimo capitolo, Tim Parks propone una specie di "gioco", presentando una serie di testi nelle due lingue, senza dire prima quale è l'originale e quale la traduzione. Lo scopo è, attraverso l'analisi linguistica, cercare di capire se è possibile distinguerli. Esistono - ecco la domanda - dei segnali linguistici che consentono di stabilire che il testo è stato originariamente scritto in inglese oppure in italiano? Il gioco funziona e se molto spesso è evidente la lingua d'origine, in altri casi è più difficile risolvere la questione. Tradurre l'inglese non può essere considerato il "manuale perfetto del perfetto traduttore" - manuale che quasi certamente mai sarà scritto, per oggettiva impossibilità -, ma del resto, malgrado la precisione dell'analisi condotta da Parks, ammette lui stesso che queste riflessioni possono essere fatte solo a posteriori, perché il tradurre è, nel momento in cui si traduce, un'operazione che ha molto a che fare con l'intuito e che non può essere totalmente sistematizzata. E anche se fosse possibile tradurre e, nello stesso tempo, ragionare approfonditamente come fa Parks su testi già tradotti, non basterebbe il tempo per farlo, considerando le scadenze imposte dagli editori ai normali volumi messi in commercio (escludo quindi le traduzioni di certi classici, condotte da studiosi, che richiedono enormi competenze filologiche e che spesso non hanno scadenze a breve termine). Il lavoro del tradurre ha anche una componente fatta di fiuto e di istinto: senza volere essere "sciamanico" o "demiurgico", il traduttore deve però abbandonarsi al ritmo del testo che traduce e se, come già ho avuto modo di scrivere, all'inizio il corpo a corpo con un testo estraneo è sempre all'insegna di una frizione e di un attrito, a poco a poco il traduttore si annulla - o si fa da parte - e si mette al servizio del testo che sta traducendo, cercando di adattare il suo respiro al respiro del traduttore. Alla fine di un libro di, poniamo, cinquecento pagine - come quello su cui sto lavorando ora - il lavoro di traduzione è anche una strana forma di "trasformazione" in cui il traduttore è un medium che non si rende più esattamente conto di quello che fa, come una sorta di cristallo attraversato da una luce. Le spiegazioni, se vengono, vengono dopo, a lavoro concluso.