Si è fatto un gran parlare del nuovo romanzo di Michel Houellebecq, La possibilità di un'isola, e per lo più se ne è parlato in tono polemico. Leggendo le opinioni, anche quelle dei lettori su Internet Bookshop, sembra che ancora una volta molti lamentino la mancanza, da parte dello scrittore francese, di una posizione etica (magari con conseguente "riscatto" conclusivo, una specie di finale "in gloria"), scambiando così un'opera narrativa per un manuale di precetti morali o di igiene pubblica. E', certamente, un romanzo desolato che, una volta chiuso all'ultima pagina, lascia nel lettore un senso di vuoto: ma chi l'ha detto che la lettura debba per forza essere consolatoria e che un autore, per avere successo, debba trasformarsi in un dispensatore di "pillole di saggezza" e di fumo spiritualista? Houellebecq vende, ma non è né Susanna Tamaro né Paulo Coelho. Per fortuna, aggiungerei io. E così facciamo anche piazza pulita di tutte le altre accuse rivolte a Houellebecq: è cinico, è misogino, è "islamofobo" (accusa risibile, quest'ultima, visto che il francese ha, tout court, un atteggiamento molto critico verso tutte le religioni), ha una visione riduttiva dell'uomo e della società. Nella fattispecie, questa che viene definita visione riduttiva lo sarebbe perché pone al suo centro il sesso e le dinamiche sessuali tra uomo e donna, ritenendole fondanti nella psicologia e nel comportamento degli esseri umani. Si può essere d'accordo o non d'accordo - anche se io credo che molte delle considerazioni di Houellebecq siano davvero calzanti, soprattutto quando esamina i rapporti di potere che s'instaurano all'interno del sesso (e che sono alla base, direi, del sesso stesso) o quando smaschera la pretesa di una presunta democraticità del sesso ("E sull'amore fisico non mi facevo illusioni. Giovinezza, bellezza, forza: i criteri dell'amore fisico sono esattamente gli stessi del nazismo") o quando descrive, con durezza e senza tanti giri di parole, la tragedia assoluta dell'invecchiare. Può piacere o no, dicevo, ma non si può eludere quello che Houellebecq scrive semplicemente sminuendolo: per spingere il paragone all'estremo, è come se io dicessi che, secondo me, la commedia dantesca è una stronzata perché io non credo in Dio (e prevengo subito la replica: non sto paragonando Houellebecq a Dante Alighieri). Ogni autore ha diritto alla sua poetica, e la poetica di Houellebecq è questa, prendere o lasciare. Certamente è una poetica che disturba, dà fastidio, irrita, non consente i voli pindarici della marmellata spiritualistico-consolatoria che oggi va tanto di moda, ma è comunque una poetica che lui non soltanto persegue con costanza, ma che espone anche con grande abilità letteraria. E qui veniamo alla seconda parte delle critiche che gli sono state rivolte, sia in passato, sia ora riguardo a "La possibilità di un'isola". Se gli uni gli rinfacciano di essere moralmente abietto, gli altri se la cavano sostenendo che non scrive bene, che ha una prosa sciatta e così via. Ora io non so che cosa intendano costoro per "sciatteria", ma a me non pare affatto che la scrittura di Houellebecq sia sciatta. "La possibilità di un'isola" è un romanzo complesso e dalla struttura molto sorvegliata, che l'autore maneggia con sapienza. Mi avventuro persino a dire che, secondo me, questa è la sua opera più matura. Con "La possibilità di un'isola" Houellebecq porta a compimento quello che aveva seminato nei romanzi precedenti - e, anzi, qui li ibrida anche con la sua attività poetica, un aspetto minore e abbastanza secondario della sua produzione. Sicuramente, dal punto di vista della lingua e della scrittura, "La possibilità di un'isola" è di gran lunga superiore a "Piattaforma (nel centro del mondo)", il romanzo precedente, e se finora "Le particelle elementari" era ritenuto il suo romanzo migliore penso che sia ora di sostituirlo con questo suo ultimo lavoro.
Ero scettico, all'inizio, e il mio scetticismo è testimonianza di quanto possano essere fuorvianti le recensioni. Avevo letto, infatti, che con questo libro Houellebecq si dava in qualche modo alla "fantascienza". Naturalmente qualcuno aveva scritto che, dalla prospettiva del genere fantascientifico, "La possibilità di un'isola" è un fallimento totale e che, in quanto romanzo di fantascienza, non si regge in piedi. Critica risibile, a mio avviso, perché è proprio come dire che, come romanzo poliziesco, "Delitto e castigo" di Dostoevskij non funziona proprio: infatti, che razza di romanzo giallo è quello in cui si sa già a pagina due chi è l'assassino? La trama è abbastanza nota, ma la riassumo brevemente. Il romanzo si svolge su due piani, entrambi narrati in prima persona. Sul primo piano c'è Daniel, comico disincantato ma di successo, che racconta la sua vita, i suoi amori e, soprattutto, il suo incontro con una setta religiosa, gli elohimiti, che si ripromette di clonare gli esseri umani per riprodurli in futuro in una versione priva dei "difetti" degli umani tradizionali. Sul secondo piano, che si svolge a migliaia di anni di distanza (e qui entra in gioco l'elemento fantascientifico) ci sono due suoi cloni, prima Daniel24 e poi Daniel25, che commentano il suo "racconto di vita". Daniel24 e Daniel25 sono "neoumani" che non conoscono più le forme dolorose dell'esistenza umana, vivono in una sorta di spazio delimitato e protetto e, a conti fatti, hanno accesso - tramite la clonazione - a una specie di "vita eterna". L'alternarsi rigido di queste due prospettive - prima parla Daniel1, poi il suo clone futuro - ha un effetto straniante sul lettore. La narrazione in prima persona dovrebbe favorire l'identificazione, perché Daniel1 è nostro contemporaneo e quindi possiamo facilmente comprendere i suoi problemi e le sue angosce, ma allo stesso tempo il fatto che dal suo presente si passi in continuazione al futuro della narrazione (commentata) da parte del clone, e viceversa, è come spostare un obiettivo puntato in primo piano sul personaggio verso una visione panoramica. Il lettore è costretto, per tutta la durata del romanzo, a un continuo processo di avvicinamento (e di identificazione) e di allontanamento (e di straniamento). Effetto di questa tecnica è che, alla fine, il protagonista sembra quasi un insetto che noi osserviamo con freddezza e precisione perché la sua esistenza non ci riguarda. Alla fine il lettore è, nello stesso tempo, sia il contemporaneo che vive la vita di Daniel1, sia l'uomo futuro, Daniel24 e Daniel25, che la guarda da una distanza siderale.
In un certo senso si può sostenere che il romanzo ha due finali, a seconda della prospettiva che assumiamo. Daniel1 si suicida, dopo essersi fatto prelevare il DNA per la sua futura clonazione: le sue ultime parole, nel suo "racconto di vita", sono desolate ("Sono uscito dal tempo, non ho più passato né futuro, non ho più tristezza, progetti, nostalgia, abbandono o speranza; in me non c'è altro che la paura"), ma dopo queste ultime parole c'è anche una lettera scritta a Esther, la ragazza che più ha amato e che lo ha lasciato, un testo che, come dice Daniel25, è "privo di ironia come di sarcasmo, niente affatto nel suo stile abituale; lo trovo persino abbastanza commovente". Il testo contiena anche una poesia ed è questa poesia che lascia aperto uno spiraglio alla speranza: l'amore sarebbe, infatti, "in mezzo al tempo / la possibilità di un'isola". Il lettore potrebbe scegliere di chiudere il libro qui, acconsentendo a identificarsi totalmente in Daniel1: nonostante il frutto amaro dell'esperienza, nonostante le conoscenze accumulate durante la vita, alla fine resiste una flebile speranza. Ma poi arrivano le ultime quaranta pagine del romanzo ("Commento finale - Epilogo"). Non viene detto esplicitamente, ma qui è Daniel25 che scrive. Daniel25 sceglie di fuggire dalla comunità di neoumani perché avverte in fondo a sé il bisogno di qualcosa di non meglio definito, una nostalgia che sembra provenire dal passato, come se il perfezionamento degli esseri umani e la loro trasformazione in neoumani avesse lasciato uno scarto o un residuo difficilmente assimilabile. Spinto da questo bisogno si mette a vagare su quello che è rimasto della terra, incontra delle comunità di selvaggi che, nella loro brutalità, negano il mito del buon selvaggio e ricordano la visione cupa e senza remissione dei crudeli adolescenti di William Golding. Alla fine, però, è costretto a riconoscere l'insensatezza di quella nostalgia e, in un certo senso, a negare la stessa "possibilità di un'isola" che aveva postulato il suo predecessore nella sua lettera finale. La vita è possibile solo come un rettilineo lungo cui si procede, senza scossoni ma senza quella che si usa chiamare "felicità". E infatti Daniel25 giunge alla conclusione che: "La felicità non era un orizzonte possibile".
Ho letto le recensioni in IBS e i commenti, e guardavo attentamente per vedere se ti scorgevo, e, no, non c'eri, ed è un vero peccato. Ah, grazie per il consenso.
Posted by: Hope | 06/11/2005 at 17:48
ero sicuro che ti sarebbe piaciuto! anzi confesso che leggendo il romanzo, in alcuni punti, pensavo proprio a te. Ora ci si chiede, in Francia, se i francesi siano un'isola.
Posted by: BubbleHouse | 07/11/2005 at 11:14