Ieri ho approfittato di un giorno di ferie - ferie per modo di dire, perché pur restando a casa ho tradotto qualche pagina - e ho guardato, tra dvd e videocassette, tre film. Un record finora imbattuto, che merita un piccolo riepilogo.
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Ieri ho approfittato di un giorno di ferie - ferie per modo di dire, perché pur restando a casa ho tradotto qualche pagina - e ho guardato, tra dvd e videocassette, tre film. Un record finora imbattuto, che merita un piccolo riepilogo.
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I credenti che obiettano che chi pur proclamandosi ateo bestemmia o "pronuncia il nome di Dio invano" è, in fondo in fondo, anche lui religioso, perché se non ci credesse non sentirebbe poi tutto questo bisogno di associare il nome di Dio al noto animale di cui non si butta via niente (mentre di Dio si potrebbe tranquillamente buttare via tutto e non se ne sentirebbe la mancanza, da queste parti) dimenticano, oltre alla funzione liberatoria della bestemmia, che il linguaggio è essenzialmente conservatore e porta su di sé le tracce di realtà ormai superate, quando non addirittura morte e sepolte. La lingua che parliamo ha sempre qualcosa di asincrono rispetto al mondo in cui viviamo ed è anche il fantasma dei mondi che abbiamo abitato in passato e che abbiamo ormai abbandonato. E' una sorta di memoria verbale. Si pensi per esempio ai proverbi che attingono dalle esperienze di un mondo contadino che per la maggior parte dei parlanti contemporanei non esiste più, che chi parla non ha personalmente conosciuto o che è completamente marginalizzato: "Mettere il carro davanti ai buoi", "Separare il grano dal loglio". Queste espressioni, ancora presenti nella lingua italiana, stanno a poco a poco perdendo vigore - credo anzi che qualche ragazzino, se gli venisse dettata la seconda, probabilmente scriverebbe "separare il grano dall'olio". Allo stesso modo, il "porcodio" - e simili esplosioni di allegra blasfemia - non è testimonianza di una fede recondita e negata dallo stesso parlante, ma è semplicemente una delle tante manifestazioni di questo aspetto linguistico. Chi, tirandosi una martellata su un dito, tira giù un moccolo non è, sotto sotto, convinto che c'è una divinità che presiede a ogni cosa, ma banalmente pesca dal pozzo della conservazione linguistica. Morta la cosa, resiste il concetto della cosa e il suo abito che è la parola che lo designa. Quando è superato anche il concetto, resta per un po' la parola, usata in modo traslato e metaforico. Un puro flatus vocis. Un giorno, scomparsa ogni traccia e della cosa e del concetto, finirà per svanire anche la parola.
12:43 in Appunti e riflessioni | Permalink | Comments (10) | TrackBack (0)
Non è che non avrei niente da dire, solo che quando penso a quello che potrei dire, mi sembra un venticello che soffia su un terreno rinsecchito, un prato riarso, una steppa. Non sarà questa brezza a rianimare una natura morta. Parlare di "faccende pubbliche" mi rende afono ancor prima di aprire bocca. Ho letto anch'io i giornali, in questi giorni - o, almeno, ne ho letto i titoli - e so degli scandali della pretaglia "pedofila", sia in Brasile che in Italia (virgoletto "pedofilo" per sottolineare come ormai ci siamo abituati a usare questo eufemismo - che etimologicamente significa il contrario - per non usare il termine più aderente alla realtà: preti stupratori di bambini), so delle ultime uscite del presidente del consiglio italiano - uscite, queste, che mi lasciano sbigottito tanto sono grezze e semplificatrici, così mi domando se davvero gli italiani abboccheranno a questo amo. Se abboccheranno, vorrà dire che davvero il caso, prima che politico, è antropologico. So, infine, dei nuovi attacchi di Ruini al pacs, che "depotenzia il matrimonio". Parole in libertà. La mia indignazione non è un pozzo senza fondo e io temo di diventare sempre più cinico e indifferente, adottare il motto: tutto va così male, lasciamo pure che vada peggio. Ma non vedo vie d'uscita e mi convinco sul serio che il problema è, ancor prima che politico, antropologico, come se gli italiani fossero costituzionalmente diversi dagli altri popoli. Voglio divagare un po': ho appena terminato di leggere l'ultimo romanzo di Christoph Hein: "In der fruehen Kindheit ein Garten"- Nella prima infanzia un giardino -, il cui protagonista è il padre di un terrorista ucciso dalla polizia della Repubblica Federale Tedesca agli inizi degli anni novanta. Il terrorista non soltanto non ha ucciso nessun poliziotto, ma nemmeno si è suicidato, come vogliono far credere le indagini ufficiali, volte a scagionare le istituzioni. Ma non è questo il punto. Questo padre è anche un insegnante e, dunque, un "Beamter" - un funzionario pubblico - e, come tale, ha giurato fedeltà allo Stato tedesco. E a questo giuramento - e alle istituzioni - ci ha creduto tutta la vita. Gran parte del romanzo si occupa del tormento interiore di un uomo che vede crollare davanti ai suoi occhi la credibilità di un'istituzione con cui si era identificato tutta la vita, un'istituzione che aveva servito coscientemente. Aveva, insomma, preso sul serio il suo giuramento. Ecco, a me è parso che - per quanto sia coinvolgente il romanzo di Hein e quasi sempre terso il suo linguaggio - un dilemma di questo genere sia faticosamente comprensibile a un lettore italiano che avverte invece costantemente un senso di straniamento. Rispetto verso le istituzioni (queste istituzioni, poi!)? Si farebbe una grassa risata, perché l'italiano vuole essere "furbo" e ha uno scarso senso della sua appartenenza a una comunità. Non si tormenterebbe certo come fa il protagonista del romanzo di Hein. A noi si addicono di più i drammi narcisistici dell'amore o le velleità da finti rivoluzionari: la responsabilità quasi mai, l'onestà men che meno.
23:16 in Irritazioni, disgusti, idiosincrasie | Permalink | Comments (0) | TrackBack (0)
Un governante finge di abbandonare il paese e lascia il potere a un suo sostituto. In realtà resta e, travestito da frate, si aggira tra i suoi sudditi per vedere come agisce il suo sostituto "in sua assenza". Quest'ultimo imprime un giro di vite alle leggi sulla morale, allo scopo di mondare la società dalla corruzione sessuale: niente sesso fuori dal matrimonio, per esempio. La legge è la legge: i bordelli vengono chiusi, gli adulteri condannati a morte. Tra i condannati a morte c'è il giovane Claudio che si è congiunto carnalmente con la ragazza che ama e l'ha ingravidata, commettendo il reato di "fornicazione". Non importa: la lettera della legge è più importante della misericordia e anche lui dovrà essere messo a morte. Claudio ha una sorella, Isabella, che è novizia e ha fatto voto di castità. Pensa che, intervenendo presso il severo sostituto del duca, riuscirà a muoverlo a pietà e a salvare la vita del fratello. Angelo, invece - questo il nome del "proconsole" del duca -, non appena la vede ne resta folgorato e le propone uno scambio: se lei gli darà il suo corpo, lui salverà il fratello. Non entro nel dettaglio della trama, con i suoi intrighi, con il gioco dei travestimenti, dei mascheramenti e degli smascheramenti: è sempre Shakespeare, questo di Misura per misura, messo in scena dal regista inglese Simon McBurney al Teatro Strehler di Milano in questi giorni. Mi voglio concentrare invece solo su questo aspetto e non su altri, poiché Shakespeare è un mare magnum in cui è facile naufragare e per il quale si sono spese già tante interpretazioni, sicché la mia non conterebbe nulla. Angelo è il difensore di una legge evidentemente crudele e ingiusta, insiste sulla lettera della legge, sulla sua applicazione. Così sta scritto e così va applicata: nessuna possibilità di salvezza per il povero Claudio. Eppure proprio lui infrange quella legge, proponendo a una giovane donna - una novizia, per di più, per la quale la verginità è il dono supremo - di commettere quelle azioni per cui condanna gli altri a morte. C'è un contrasto stridente: se un tiepido assertore della legge la aggirasse e la piegasse a proprio vantaggio non ci stupiremmo più di tanto, ma com'è possibile che proprio chi la propugna con tanta forza poi la violi con una tale noncuranza? E' il principio dell'ipocrisia: il potente usa due pesi e due misure nell'applicazione della legge, senza sapere che alla fine gli verrà reso tutto "misura per misura". Angelo sfida Isabella dicendole che anche se un giorno lo accusasse di quello che lui davvero le sta proponendo nessuno le crederebbe. Il potere sa inquinare la verità e, anzi, la dipinge in modo da farla sembrare diffamazione, calunnia, menzogna. Siccome però "Misura per misura" è una commedia - per quanto cupa (e resa ancora più cupa e livida dalla splendida messinscena di McBurney) -, il cattivo alla fine viene punito (misura per misura, appunto) e l'ordine, in un certo senso, ristabilito. (Ma Shakespeare è sufficientemente disincantato da non fare del duca un sant'uomo: il potere corrompe comunque, magari con altre forme di corruzione. Infatti, dopo avere smascherato le macchinazioni che hanno avuto luogo durante la sua presunta assenza, costringe Angelo a sposare la donna che un tempo aveva ripudiato, mentre per sé, con sguardo allucinato, pretende la mano di Isabella. La virtù sembrerebbe comunque destinata a soccombere).
Perché mi sono concentrato su questo aspetto? E' stata la scelta registica a suscitare associazioni quasi automatiche in me. McBurney sposta il testo di Shakespeare nel mondo contemporaneo: Angelo sembra un executive o un consigliere d'amministrazione in giacca e cravatta, le prostitute sono sboccate e hanno un trucco vistoso, i carcerati indossano divise arancioni e i loro movimenti sono accompagnati da suoni che evocano porte di ferro di una prigione moderna che vengono aperte e chiuse. Come non stabilire quindi dei paralleli con la nostra società? Così, vedendo questa ipocrisia in scena, mi sono venuti in mente quelli che oggi pretendono di ergersi a guide morali dettando legge anche dove non dovrebbero, ma intanto sono stupratori di bambini. Oppure ho pensato a certi politici che parlano di libertà e se ne dichiarano campioni, anzi sostengono di abitare nella "casa della libertà" ma, allo stesso tempo, censurano e zittiscono chi rivela i loro intrallazzi e la loro corruzione, chiamandoli calunniatori. E poi c'è chi invoca la legge, chi si propone di riformarla per renderla più giusta, chi promulga nuove leggi sostenendo che sono per il bene per la comunità, ma serve in realtà soltanto i propri interessi. La Vienna di Shakespeare in "Misura per misura" assomiglia molto all'Italia di oggi. Si può sperare che verrà reso a loro tutto quanto "misura per misura"?
22:20 in Visti, letti, ascoltati | Permalink | Comments (0) | TrackBack (0)
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La pornografia ha la capacità di sterilizzare l'atto sessuale ed è estremamente adatta per chi, frigido e voglioso allo stesso tempo, prova desiderio per dei corpi ma non li vorrebbe del tutto umani o, per meglio dire, li vorrebbe umani ma non completamente viventi. Sullo schermo agiscono individui che di umano, infatti, hanno solo le sembianze. La loro umanità è ridotta alla loro funzionalità, che si esprime in un'unica funzione: quella di copulare. E questo copulare è depurato di tutti i difetti che inevitabilmente si accompagnano all'attività sessuale umana. Sarebbe peccato mortale mostrare corpi men che perfetti o, addirittura, corpi che fallissero e non soddisfacessero questo ideale di macchine fottitrici. Bocche che servono solo a succhiare e leccare, buchi che devono soltanto essere riempiti da cazzi duri (o da altri strumenti falliformi) e che cancellano, nell'immaginario della rappresentazione, la loro funzione escretoria - a meno che, ovviamente, sia proprio questa a essere messa al centro della rappresentazione pornografica in quanto feticcio erotico par excellence, annullando quindi tutto il resto. In ogni caso è sempre una parte del tutto che concentra su di sé l'intera attenzione, sostituendosi al tutto e diventando essa stessa l'unico tutto ammissibile ai fini dell'eccitamento dello spettatore. Le donne non sono mai mestruate, i loro sessi sono per lo più lisci e plastificati, s'intuiscono inodori e sempre pronti al coito, l'unica funzione loro concessa. Le penetrazioni anali non lasciano mai tracce: nulla va mai storto e i cazzi vengono sempre estratti immacolati esattamente come quando sono stati infilati. Il movimento d'ingresso e di uscita si svolge senza frizioni e persino il dolore è funzionale all'esaltazione del piacere. Non è consentita la visione del sangue. E' il tripudio del clistere e dei dilatatori che supponiamo precedenti al ciak e che vengono eliminati in fase di editing. La pornografia, insomma, inscena un sesso perfetto e sterile, un sesso che non dà fastidio. Proprio per questo la pornografia è un sesso non-sesso, perché ha eliminato tutto quanto di sgradevole ancora c'è nel sesso reale - fallimenti inclusi -, e appunto per questo motivo è sommamente adatta alle anime candide e agli schifiltosi in genere. C'è, nella pornografia, una strana forma di ascesi che spiritualizza una delle attività più fisiche e meno "sottili" del corpo umano.
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I protagonisti dei porno hanno un unico compito e un'unica missione nella vita: scopare. Sono a una dimensione, sono totalmente trasparenti. E' encomiabile l'azzeramento della psicologia che si compie nella narrativa pornografica. Nelle situazioni che si presentano nulla si frappone mai alla realizzazione di questo compito. Una situazione frequente è questa: due personaggi stanno scopando in un luogo esposto al pubblico, c'è un terzo che li vede per caso e, un po' incuriosito, incomincia a spiarli. Li spia e si eccita a sua volta, si masturba e, alla fine, li sorprende. Si unisce a loro, senza che nessuno dei due abbia nulla da obiettare. E' inevitabilmente all'altezza del compito: quasi sempre giovane e bello, niente impedisce un bel terzetto.
Nei film pornografici gay c'è una variante - un elemento in più - che realizza un desiderio fondamentale (più o meno inconscio) dello spettatore omosessuale, che non è soltanto il desiderio erotico dell'immediata esigibilità del sesso senza ostacoli, ma la rimozione dell'ostacolo primo, l'Ostacolo per eccellenza: tutti, infatti, sono omosessuali o, quanto meno, non sono affatto disinclini - per usare un eufemismo - ad avere rapporti omosessuali. Se due maschi stanno scopando e un terzo li sorprende, questo non si stupisce né li stigmatizza, ma si unisce a sua volta al festino in corso. La pornografia omosessuale omosessualizza l'universo maschile ed esclude l'elemento che, nella maggior parte dei gay, è produttore d'ansia: il non sapere se un possibile partner sia o non sia gay, se sia o non sia omofobo e, in corrispondenza di questo, quali potrebbero essere le sue reazioni in caso di un approccio. La pornografia omosessuale realizza - in forma compensatoria e consolatoria, ovviamente - la sospensione dell'angoscia primitiva dell'omosessuale e svolge quindi un forte effetto ansiolitico, funzione, questa, praticamente assente nella pornografia eterosessuale (dove, tutt'al più, si esorcizza il timore del rifiuto da parte di una eventuale partner sessuale, non essendovi alcuna condanna sociale per una tendenza sessuale che non è minoritaria).
[... segue?...]
22:18 in Appunti e riflessioni | Permalink | Comments (4) | TrackBack (0)
I gulag di Stalin non sono più un segreto da tempo, mentre dei gulag di Fidel Castro poco si sa. Dipende forse dal fatto che Stalin è ormai morto e putrefatto, mentre Castro regna ancora imperterrito su Cuba? Mi stupisce, infatti, il credito di cui gode tuttora Castro presso larghi strati della sinistra, disposta a fargli abbondanti sconti nonostante le violazioni perenni dei diritti umani. Un contributo, in forma narrativa, alla scoperta delle cosiddette Umap (Unità mobili di aiuto alla produzione) - un altro degli eufemismi che i regimi dittatoriali usano quando si tratta di mascherare la realtà dei campi di concentramento e la repressione dei dissidenti - arriva dal romanzo, appena pubblicato in italiano, di Félix Luis Viera Il lavoro vi farà uomini - titolo che, oltre ad avere maggiore impatto rispetto all'originale "Un ciervo herido", richiama il motto "rieducativo" sotto cui si ponevano le Umap.
Il romanzo di Viera è ambientato negli anni sessanta, il periodo in cui le Umap conobbero la loro maggior diffusione, popolate da dissidenti, testimoni di Geova, omosessuali o chiunque fosse inviso al potere castrista. E' partendo dalla sua esperienza personale di prigioniero che Viera costruisce il suo racconto e quello che sorprende, leggendolo, è la totale mancanza di rancore o livore. L'esperienza è dura, ma l'autore sembra averla mondata delle scorie per fare brillare i fatti nella loro nudità. "Il lavoro vi farà uomini" non è però soltanto un documento, ma è anche un testo narrativo costruito con grande sapienza in cui si intrecciano, alternandosi e creando così una sorta di polifonia, diversi livelli. Il nucleo centrale è rappresentato dalla vicenda del protagonista, Armandito Valdivieso che, poco più che ventenne e appena sposatosi con una ragazza di provata fede comunista, viene arrestato perché considerato "asociale" (in realtà basta poco per attirare su di sé questa accusa: avere i capelli lunghi, ascoltare i Beatles, frequentare qualche omosessuale o andare nei cabaret). L'arresto lo porta nel campo di lavoro di Camaguey, dove incontra altri compagni di sventura, in maggioranza omosessuali ("Quelli che proprio non capisco perché si trovino qui sono gli omosessuali. Ognuno è libero di fare della sua anima, corpo e culo quello che vuole, non ti pare?") - come il drammaturgo apostrofato con i soprannomi di "Artista" o "Elefantessa" -, o elementi sgraditi al potere castrista come il contadino avventista Jorge e il ballerino di rumba Guillermo. La descrizione del trasporto in treni blindati verso il luogo di destinazione ricorda in maniera inquietante le deportazioni naziste: persone ammassate in vagoni con poca acqua da bere, ben presto sudicia, e costrette a stendersi in mezzo ai propri escrementi. Nei campi la vita non è certamente migliore, anche se Viera si guarda bene dal disegnare un ritratto in bianco e nero trasfigurando le sue vittime, di cui mostra invece anche le debolezze e le meschinità. Ciò non sminuisce però la crudeltà e l'ingiustizia delle punizioni inflitte agli internati - come, per esempio, la tortura della goccia, "il bagno turco" (che, per inciso, praticavano anche nelle prigioni "politiche" della DDR, come quella di Hohenschoenhausen) o il "sotterramento", sotto il sole cocente, con solo la testa che spunta fuori dalla terra. A questo nucleo centrale si affiancano le lettere che Armandito scrive alla madre Andrea Ginarte, vedova, e stralci di una sorta di diario che quest'ultima redige, usando un linguaggio colorito, perché il figlio lo legga quando lei sarà morta. E alla fine la donna morirà davvero: suicida, ingerendo varecchina, come si suicidano altri personaggi del libro di Viera (come, per esempio, l'omosessuale che una notte aveva afferrato il cazzo duro di Armandito addormentato, rimediando un pugno al risveglio). Infine lo sguardo di Viera si posa anche sull'altro versante, cioè quello di chi ha il coltello dalla parte del manico, come Stalin Gomez e il gruppo di persone che decidono la sorte di Armandito e di quelli come lui, facendoli arrestare.
Le ultime pagine del romanzo segnano una cesura temporale e stilistica e introducono, senza ulteriori commenti, un' "intervista" - non sappiamo se frutto di un'invenzione narrativa o se documento reale - che, adducendo a pretesto un segreto incarico governativo, l'autore conduce con uno dei soldati che, negli anni sessanta, era a guardia del campo di lavoro forzato di Camaguey. L'uomo non solo non è pentito della sua attività, ma la ritiene meritoria e pensa ancora che fosse necessaria, così come continua a sperare nel trionfo futuro del socialismo, nonostante tutte le ristrettezze a cui è costretto a sottomettersi ("notti in cui si va a dormire con un poco d'acqua e zucchero nello stomaco") e malgrado i privilegi di cui godono i "dirigenti" ("Non mi dirà che, per esempio, il Comandante in Capo deve soffrire le stesse ristrettezze degli altri").
Di Viera non so nulla, se non le informazioni fornite nella postfazione di Guido Vitiello, che situa "Il lavoro vi farà uomini" nel suo contesto storico e politico. Parlando della "cappa di maschilismo" - e della conseguente repressione degli omosessuali a Cuba (di cui fu vittima e testimone al tempo stesso anche Reinaldo Arenas nel suo "Antes que anochezca") - Vitiello cita il "documentario celebrativo" di Oliver Stone in cui il regista, timidamente, accenna a questo aspetto, che Castro evasivamente liquida definendolo "il problema del machismo", "come se a fomentarlo, il 'problema', fosse stato altri che lui; e come se non fosse stato lui a escogitare per esso le soluzioni abiette su cui Viera ci informa in modo così accurato e toccante".
21:26 in Visti, letti, ascoltati | Permalink | Comments (4) | TrackBack (0)
Mi sono svegliato alle sette e mezzo, dopo sei ore di sonno (nulla, per me), e sono andato in ospedale per un'ecografia. Con largo anticipo, perché io sono fatto così. Mentre aspetto - sala d'attesa confortevole, devo dire, sembrava la saletta imbarchi di un aeroporto, con meno passeggeri però - vedo passare un giovane infermiere fichetto (nel senso di carino, perché col camice bianco non so quanto se la tiri, anche se le scarpe da ginnastica argentate catarifrangenti non lasciano presagire nulla di buono). Si chiama Tomas (o Thomas, o Tomasz, a seconda): lo so non perché gliel'ho chiesto, ma perché ho sentito una collega più anziana che lo chiamava ("Tomas [o Thomas, o Tomasz, a seconda], vieni ché andiamo a fare una biopsia". Non a lui, suppongo). E mentre me lo vedo passare davanti due o tre volte mi torna in mente una cosa - l'ultima - che ho pensato ieri notte prima di addormentarmi. Volevo segnarmela ("ci faccio su un post", mi sono detto), ma poi ho lasciato perdere ("se domani me la ricordo, bene, se no pace"). Ripensavo a un tizio che nel 1990 aveva diciannove anni e si era messo insieme a un caio, che ne aveva trentatré. Frequentavano, come me allora, il Centro d'Iniziativa Gay di via Torricelli. A me, che ne avevo venti, quel trentatreenne sembrava un vecchione e la differenza d'età tra i due un abisso insormontabile. Chissà, ho pensato ieri notte al buio, che cosa direbbe il mio io di allora se vedesse se stesso ora, trentacinquenne - ormai quasi trentaseienne - e chissà se lo considererebbe papabile per una storia d'amore o per una banale trombata. Certamente no: lo definirebbe una vecchia gallina, nemmeno più buona per fare il brodo. Eppure ora, da dentro, mi sembra di essere a volte un giovincello di primo pelo e dalle ancora possenti erezioni che guarda quelli che hanno quindici anni meno di lui, speranzoso di trovare quello o quelli che amano gli "uomini maturi". Curioso che questa storia, che avevo dimenticato, mi sia tornata in mente vedendo questo Tomas (o Tomasz, o Thomas, a seconda).
Entro nello stanzino delle ecografie - scortato dalla giovane infermiera (purtroppo di sesso femminile biologico), che oltretutto mi cazzia perché sbaglio porta -, la luce è soffusa, quasi mi addormento. Arriva il medico e, per affabilità e loquacità, mi dà l'impressione di essere una cassiera dell'Esselunga che passa la penna ottica su una confezione di petto di pollo. Si giri di qua, si volti di là, inspiri, trattenga, espiri, arrivederci.
Quando in via San Vittore vedo, affissi a un portone, due annunci di agenzie immobiliari, mi torna in mente quello che mi ha raccontato ieri sera M. S., che ha telefonato per chiedere quanto veniva un appartamento in affitto in via Melchiorre Gioia. Cinquanta metri quadrati, mi ha detto, settecentocinquanta euro, più cinquanta euro di spese mensili, più il riscaldamento, che è autonomo ed è fuori dal conteggio. Lascio perdere il loft di centoventi metri quadrati in vendita in via San Vittore, ma ignoro anche il monolocale in affitto, con terrazzo, di trentacinque metri quadri. Se per via Melchiorre Gioia si arriva a chiedere intorno agli ottocento, ottocentocinquanta euro al mese, chissà in zona Sant'Ambrogio.
Vado alla Libreria Babele, la libreria frocia di Milano. Una volta ci andavo spesso. Era in via Sammartini, io abitavo in via Tonale, mi bastava girare l'angolo. Adesso che è dalle parti di Cadorna ci andrò una volta all'anno e ogni volta la trovo peggiorata. Mi avvicino allo scaffale dei libri vecchi, usati o fuori catalogo. C'è ancora il manuale di educazione sessuale per giovani che lessi quando avevo tredici o quattordici anni ("Cambia il corpo, cambia la vita", edizioni Feltrinelli). A sedici euro. C'è, in edizione tascabile, "L'eunuco femmina", edizioni Bompiani, di Germaine Greer. A otto euro. Ci vuole una bella faccia tosta. Sono spariti i libri fotografici della Bruno Gmuender e quelli che sono rimasti fanno pietà. Non trovo comunque quello che volevo consultare e, eventualmente, comprare. Anche nello stanzino in fondo - quello delle pornerie - è rimasta poca roba. Gli scaffali di metallo sono mezzo vuoti: sembra, in versione porno, un supermercatino dell'Europa dell'Est di prima del crollo del comunismo.
In metropolitana mi si siede accanto una signora con in grembo un barboncino dal pelo bianco, tutto cotonato - quasi più di lei. Mi chiede: "Le dà fastidio?". E io faccio no no con la testa e sorrido come un ebete al cagnolino. Davanti a me due signore corpulente parlottano tra loro. Io tendo le orecchie e cerco di capire, come faccio sempre, che lingua parlino. Mi sembra di individuare elementi neolatini e formulo, tra me e me, la mia ipotesi: "E' rumeno, sì, dev'essere rumeno". Dopo un po' che le ascolto, mentre sto per scendere, mi accorgo che invece è un dialetto dell'Italia meridionale, forse campano.
Rientro a casa e spalanco le finestre: c'è odore di chiuso e stamattina sono uscito di corsa.
... all'inizio era una casa berlinese. la chiamavo berlinese perché sembrava berlinese e non era a berlino. nel corridoio c'era ancora la moquette. quando mi avevano dato le chiavi li avevo portati a vederla. c'eravamo fermati a luci spente nella camera enorme col parquet. avevamo alzato le tapparelle per guardare giù in strada. di fronte l'alberghetto a una, due stelle, con il nome della via. la strada scottata dalle luci giallastre che illuminavano un poco anche le pareti. tagliate in zone d'ombra e zone più chiare. Vuota. all'inizio avevo un letto ricoperto dalla plastica per proteggerlo dalla vernice bianca dei muri. non avevo un tavolo, non avevo sedie e me ne aveva prestata una un tizio che non ho più rivisto. se non anni dopo quando gli ho detto: ehi, ho ancora la tua sedia. andavo in negozi a comprare pentole, asciugamani, lenzuola. un asse da stiro. venivo da greco con l'asse da stiro in autobus e la gente mi guardava. ero, a modo mio, soddisfatto. ero, forse, felice. sei sette zero sette sei zero tre due. davo il mio numero di telefono a tutti, i primi mesi. avevo una segreteria telefonica nera della telecom. tornavo a casa e controllavo se lampeggiava. ero solo, ero libero, iniziavo, respiravo. d'estate uscivo in bicicletta e andavo a nuotare nella piscina più scomoda e lontana. tornavo sudato nel silenzio d'agosto, traducevo un libriccino spiritoso di una psicologa olandese femminista. restavo in casa, uscivo la sera. uscivo dal lavoro, non andavo a casa, andavo in un locale alla periferia di milano. pedalavo lungo un naviglio, sotto il ponte, sbucavo in un viale, lo percorrevo fino in fondo, giravo in una strada con vecchi depositi delle ferrovie, case per i ferrovieri. tornavo a notte fonda o presto la mattina, pedalavo sopra il cavalcavia delle ferrovie, davanti al cimitero di greco. bevevo caffè e mangiavo biscotti e mi mettevo a letto fino al giorno dopo, che poi era il giorno stesso. non cercavo nulla, non cercavo nessuno. vivevo. le cose mi capitavano. ero soddisfatto, forse ero felice. non so dirlo. il venti settembre in televisione davano ragazzi fuori. indeciso se guardarlo fino in fondo o uscire, testa o croce. uscivo. conoscevo lui, in quel locale, pensando che non mi avrebbe guardato. e invece. poi sul pianerottolo di casa mia. leggere scarpe da tennis di tela, foulard al collo. si voltava per scendere le scale. sorrideva, sorridevo. ero andato a berlino in maggio, dovevo andare a barcellona, a madrid in ottobre. andavo solo a barcellona, carrer de la porta ferrissa, scrivevo in un taccuino quanto lo desideravo e poi resistevo. andavo al cinema. no lo digas a nadie, nightwatch, hustler white. resistevo e basta. il primo inverno febbricitavo. il letto era, per il lato lungo, contro il muro che divideva la camera dal bagno e per la testata contro il muro che dava all'esterno. ai piedi la scrivania. freddo fuori, e rumore di traffico. il freddo di ogni inverno, il traffico di ogni giorno. mi addormentavo nel pomeriggio, con un plaid buttato addosso. mi sforzavo di lavorare alla traduzione di un brutto romanzo storico. la prima metà. la tabella di marcia mi imponeva almeno tre pagine di stampa al giorno. termini dell'epoca romana, controllavo e ricontrollavo. mi alzavo la mattina e con trentotto e mezzo mi mettevo al laptop preistorico. il pomeriggio calava la luce delle giornate invernali - era fine gennaio, inizio febbraio -, mi mettevo a letto e leggevo. dovevo leggere un romanzo americano. un noto autore che scriveva in incognito e che a ogni libro cambiava genere letterario. una specie di western, l'abbandono di una città fantasma. la camera era un gioco d'ombre. febbricitavo. mi concedevo una pausa. la realtà esterna si ammorbidiva, si confondeva. illanguidivo. mi staccavo. lui passava e mi portava il termometro. l'aveva comprato poco prima in farmacia, io non ne avevo uno in casa. erano gli inizi, assorbivo considerazione. piccole dedizioni. poi ritornava la sera e dormivo per ore e ore. condivisioni progressive. il calcolo dei pranzi consumati. malattie e colloqui di lavoro. il numero di telefonate. numero al giorno per numero di giorni per numero di anni. un vortice di parole sempre più vuote. passava il tempo. passavano i mesi. diventavano anni. ero incredulo. mi aspettava. sarebbero venuti viaggi e dubbi. poi dubbi e certezze. poi certezze e viaggi. gli anni scivolavano via. è stata una discesa. non sono più soddisfatto. felice, non so...
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Annichilito di fronte alla sfacciataggine e alla protervia con cui le gerarchie cattoliche cercano di occupare sempre più spazio nella vita pubblica e politica, imponendo i loro codici etici a chi questi codici etici non li condivide, io non posso e non so dire niente di meglio di quello che scrive lui, con indefessa acribia e con ammirevole precisione (oltre che con grande verve). In margine alla "proposta" che circola in questi giorni di mandare i volontari cattolici del Movimento per la Vita nei consultori familiari allo scopo di dissuadere le donne che vogliono abortire - una proposta, sia detto per inciso, di una violenza inaudita. E se non capite dove sia la violenza, non avete capito niente -, lui lancia provocatoriamente quest'altra proposta. Vero, verissimo: a questo punto possiamo davvero mandare i Testimoni di Geova nei centri emotrasfusionali. E io mi permetto di aggiungere la mia piccola, personalissima proposta: volontari islamici ed ebraici (per una volta uniti) ai banconi di salumi nei supermercati per dissuadere la popolazione dall'acquisto immondo e peccaminoso di carne di porco. (E non parlo pro domo mia, ché la faccenda mi è indifferente, non mangiando io carne).
19:38 in Incursioni nella polis | Permalink | Comments (2) | TrackBack (0)
"Se io fossi il dittatore, il presidente o controllassi in qualche modo un paese bene amministrato, la prima cosa che farei è di proibire alla Chiesa Cattolica di educare chiunque. Non le permetterei di avere scuole perché considero la sua educazione ostile ai migliori interessi della Repubblica. Dove ha dominato la Chiesa Cattolica non c'è mai stata una società democratica. (...) La democrazia, per come la conosciamo - la Repubblica moderna - è un fenomeno essenzialmente protestante. Qualunque cosa il protestante non riesca a fare, almeno protesta. Ma io non permetterei a nessun gruppo religioso di avere delle scuole. E, senza scuole, nel giro di due generazioni non ci sarebbe più la Chiesa Cattolica, perché le loro dottrine sono così folli che nessun individuo sano di mente le accetterebbe. Poi tasserei pesantemente tutte le chiese, il che ridurrebbe la loro influenza del 90 per cento."
Gore Vidal, da Sexually Speaking, mia traduzione.
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