In Anatomia della battaglia, di Giacomo Sartori, ci sono un padre che muore e un figlio che s'interroga sul rapporto con quel padre così problematico, un padre dal quale è fuggito tutta la vita per costruire la propria identità in opposizione a quella di lui - salvo poi scoprire, alla fine, una somiglianza e una vicinanza maggiori di quanto non avesse mai sospettato. Romanzo drammatico, intenso e sincero che però non scade mai nel tragico o nel patetico, ma è sempre sorretto da un linguaggio misurato e riflessivo. Il figlio cerca di comprendere quel padre che, nonostante il passare del tempo, si è sempre definito fascista e con la rigidità dell'integerrimo fascista ha educato i figli. "Mio padre credeva nelle azioni e nei fatti, non nelle parole. Diffidava istintivamente di chi parlava tanto, disprezzava i politicanti e gli avvocati, e aveva nei confronti dei professori, come per esempio mia madre e molte sue amiche, una spietata prevenzione. (...) Il suo fascismo era un afflato ben più profondo e più insidioso di una astratta ideologia: era una disciplina e uno stile di vita, una religione".
"Battaglia" è dunque il termine centrale per caratterizzare il padre dell'io narrante. Per lui, infatti, tutta la vita è all'insegna della battaglia. Battaglia in senso concreto durante la seconda guerra mondiale, ma battaglia anche quando la guerra è finita - ma continua, ciò nonostante, a essere presente dentro di lui - e assume valore simbolico. In questa battaglia non bisogna mai mostrare cedimenti: vivere significa sfidare e combattere senza posa. Da qui deriva, per esempio, il suo rapporto con l'alpinismo - a cui costringe tutta la famiglia -, dove la montagna diventa il nemico da sconfiggere. La battaglia viene quindi ingaggiata, a tempo debito, anche contro la malattia, il tumore che a un certo punto lo colpisce. Ingaggiare la battaglia significa per lui "allenarsi", comportarsi esattamente come se il tumore non ci fosse, anche se, a poco a poco, la malattia lo abbatte fino a distruggerlo. La malattia che irrompe, infatti, è sempre stata vista dal padre come una debolezza che l'individuo forte (e dunque, ai suoi occhi, "fascista") non si può permettere: "Confessare di esser malati equivaleva a dichiarare la propria inettitudine". O ancora, quando la malattia colpisce lui: "Non poteva pensarsi malato, si sarebbe disprezzato troppo".
L'atteggiamento di sfida perenne è già tutto presente nell'immagine con cui si apre il romanzo: siamo nel 1986, è da poco accaduto il disastro di Cernobyl e le autorità invitano a non mangiare frutta o verdura che, a causa delle piogge, possono essere contaminate. Il padre, invece - rifiutando completamente queste indicazioni ("invenzioni dei politici", buone per i "pecoroni") -, continua a nutrirsi dei prodotti del suo giardino.
Il secondo termine del titolo è "anatomia": assolutamente appropriato, perché la battaglia viene sezionata e analizzata nelle sue varie manifestazioni. Anche quando si tratta della battaglia che impegna l'io narrante contro la visione del mondo del padre, a cui oppone scelte che, a loro volta, sono di riflesso una battaglia: la lotta armata in un gruppuscolo di estrema sinistra; la fuga in Africa dopo la laurea, per un fumoso progetto umanitario; e infine la decisione di diventare scrittore (il che suggerisce un lato autobiografico nel romanzo). Quest'ultima decisione è anche il modo dell'io narrante per vincere la disistima del padre e la sfiducia che ha sempre nutrito per le sue capacità: "Era solo grazie alla scrittura che non avevo paura. Lo dovevo a lei se la sera riuscivo a sbaragliare l'obnubilante stanchezza e potevo scavare con gesti lenti da archeologo in me stesso: la mia debolezza, della quale mi ero sempre vergognato, era diventata il combustibile di una micidiale forza".
Il racconto del rapporto del protagonista con il padre è dunque il racconto di un'opposizione e, da un punto di vista stilistico - soprattutto all'inizio -, l'autore usa il discorso indiretto libero che segnala l'invasione compiuta dal padre nel mondo del figlio, e lo fa introducendo singoli frammenti verbali nel magma narrativo. Questi frammenti verbali appaiono, in lettere maiuscole, e portano con sé detriti e corpi estranei: sono per lo più gli stereotipi della concezione paterna che producono attrito con il mondo del figlio. Si tratta di affermazioni come: la gente è "ABITUATA TROPPO BENE", "TROPPO DELICATA", oppure luoghi comuni come "VERRA' BEN LA GUERRA", consigli come "NON SPRECARE IL CIBO", "NON LASCIARE AVANZI" perché è cosa da "VIZIATI" abituati alla "SPESA SUPERFLUA" - e il lettore si raffigura già il padre che scandisce queste parole come frustate con cui ridurre a ragione i figli recalcitranti.
Cronologicamente, "Anatomia della battaglia" ha un andamento complesso, perché è un continuo andirivieni tra il presente e diversi momenti nel passato. Ci sono singoli blocchi temporali all'interno dei quali l'autore si muove (il periodo di Cernobyl, il passato ancor più remoto in cui i genitori avevano gestito un rifugio in montagna, il presente della malattia del padre, il periodo della trasferta africana del figlio, l'epoca della sua lotta armata) e il passaggio dall'uno all'altro è rapido. Tuttavia non crea confusione nel lettore, che al contrario si abitua rapidamente a questi continui scarti temporali, senza perdere l'orientamento. Ai passaggi rapidi nella cronologia degli eventi corrisponde una narrazione "nervosa", fatta di paragrafi brevi all'interno dei singoli capitoli.
Il finale non è conciliante: il padre muore e il momento della sua morte corrisponde a un abbandono della disciplina e della battaglia (e in questo senso la interpreta l'io narrante: "Prese la sua prima risoluzione non fascista: decise che era venuto il momento di morire"). La morte del padre, però, non corrisponde a una liberazione del figlio - che non avrà dal padre quell'ultimo gesto di affetto e di riconoscimento che avrebbe, nemmeno troppo segretamente, desiderato: "Sapevo che prima o poi avrei dovuto osservare da vicino quel grumo scuro dentro di me. Ma nell'impellenza della crisi che vivevo l'istinto mi incitava a soprassedere, mi dicevo che per il momento dovevo provare a vivere".