Parlare in una lingua straniera era, innanzitutto, fuggire da qui e trovare momentaneo rifugio in un altrove. Abbandonare provvisoriamente una maschera abituale (erroneamente scambiata per la propria identità) e sceglierne un'altra - o diverse altre -, inizialmente solo sonore, poi anche gestuali, e con quelle rappresentare se stessi in un modo nuovo, come se si stesse rappresentando la propria "persona" (che qui, appunto, significa anche "maschera") sul palcoscenico di un teatro. Per me parlare una lingua straniera è stato questo, tante volte. Ed è stato anche una strana specie di libertà e di liberazione: uscire da una forma data e riversarsi dento un'altra forma alla quale, almeno all'inizio, non si associavano particolari caratteri emotivi. Provavo dunque il sollievo di parlare di me usando fonemi o grafemi che, alle mie orecchie e ai miei occhi, erano ancora vergini.
Parlare una lingua straniera significava anche porre una distanza tra me e le parole che usavo per raccontare me e il mio mondo. Non importava quanto familiare mi fosse diventata un'altra lingua dopo anni che la praticavo: restavo sempre e comunque dietro uno schermo. Era questa la differenza rispetto alla mia lingua madre, dove non era possibile pronunciare una parola senza trovarmi subito immerso in un fiume in cui mi ero bagnato sin dalla nascita. Perché ogni parola si ripercuoteva dentro di me e rievocava quello che le cose e la mia esperienza delle cose vi avevano depositato quando ancora non avevo sviluppato uno spirito critico e, bambino, assorbivo tutto. Parole dal significato analogo in una lingua straniera avevano conosciuto, da adulto, altre associazioni e ora le ripescavo, più cosciente e più distaccato. Il legame emotivo viene ricostituito in maniera consapevole e al concetto di automatismo si sostituisce quello di scelta. Se l'italiano è la mia patria, altre lingue sono la mia casa o, con più esattezza, le case in cui, di volta in volta, scelgo di abitare.
Per i timidi in generale è una manna: superato il primo impatto con l'articolazione di suoni nuovi, potersi esprimere in altre forme è una sorta di riscatto. Anche chi tende a parlare poco nella sua lingua madre, dietro la maschera e la protezione di una lingua "altra", a poco a poco si apre, perché ha a disposizione un mezzo più oggettivo (per lui più oggettivo) per svelarsi senza, allo stesso tempo, sentirsi nudo come si sente invece con le parole che è abituato usare nella sua lingua. Il passo successivo, però, è trasportare questa esperienza nella propria lingua originaria, dove bisogna applicare (o tentare di applicare) l'insegnamento che la pratica delle lingue straniere ci ha impartito, usando la nostra stessa lingua come se non ci appartenesse più. Non è certamente un gesto automatico questo, perché la mia lingua mi coglie comunque di sorpresa, anche quando non ho eretto alcuna difesa. Sono distratto o sovrappensiero, ma senza volerlo mi arriva, con il suono, anche il significato di parole che mi sono familiari, senza dovermi concentrare. Questa immediatezza è il risultato dell'immersione originaria nella madrelingua. Però, l'uso attivo che faccio della mia lingua può essere, se lo voglio - e, in genere, lo voglio, a meno che non sia sopraffatto da emozioni troppo violente e incontrollabili -, segnato dalla stessa distanza che pongo tra me e la lingua straniera. Riflettere su quali parole usare, sceglierle, correggere l'emissione dei suoni, controllare la dizione: è l'atteggiamento di chi, scegliendo di usare in modo consapevole ciò che solitamente è irriflesso, si sottrae alla parola come "rumore umano" e dà forma all'informe - e così cerca di dare una forma anche a se stesso.
è sorprendente leggerti!!!! riesci a descrivere perfettamente stati d'animo, sensazioni e riflessioni...mi piace, grazie!!
Posted by: p | 31/03/2005 at 23:13
Prego :)) e... buona lettura.
Posted by: stefano | 31/03/2005 at 23:40