A volte, la sera prima di addormentarmi, mi dedico ai miei inani esami di coscienza che in realtà sono più un tentativo di partita doppia in cui bilanciare sforzi e fallimenti e in cui raramente riesco a fare quadrare i conti. Leggo questo invito e mi predispongo ad applicare il bisturi anche su di me, nonostante sia impossibile evitare un certo compiacimento anche quando cerchiamo di "rivendicare la paternità di una vergogna". La mia vergogna è stata la mancanza di coraggio, il non aver saputo osare quando era il momento giusto. Il treno è passato e io l'ho visto, ma sono rimasto impalato come un imbecille a lato del binario.
Qualche giorno fa parlavo con B. dei nostri tentativi di vivere altrove. Lei, per lungo tempo, c'è riuscita. A 18 anni parte per Londra, sfuggendo alle pressioni di chi vorrebbe mandarla - banalmente - a Salsomaggiore Terme. Rinuncia alle scorciatoie che la bellezza (giovanile e femminile) le offrirebbe per farle fare "carriera" (una carriera qualunque, come accade alle belle e alle bòne che non sanno fare nulla) e farle trovare un posto qualsiasi nello sputtanato mondo (e solitamente si tratta del posto abituale, quello riservato alle donne, spesso in quella zona che si chiama "ultima spiaggia") e preferisce invece esercitare la sua intelligenza. Tagliente e scomoda, ancora più tagliente e scomoda perché proviene da una donna: a un uomo si perdona una certa dose di intelligenza, perché può essere un gradito accessorio, specialmente se è applicata alle cose pratiche o alla gestione dei destini del mondo, a una donna no. Oppure deve pagarla cara, se vuole essere persona e non "donna". La mia ammirazione è massima: lei ha avuto coraggio. E io, mi domando? Io nulla, ho gettato la spugna molto prima, ho cercato mille scuse - le ho anche trovate - ma davanti al tribunale dei miei esami notturni non so sfuggire: devo rivendicare la paternità di questa specifica vergogna. Organizzo la mia crocifissione.
Altri testimoni per l'accusa, costellazioni di pensieri: Aldo Busi che, quattordicenne, molla tutto per sfuggire alla tirannia del padre e va a lavorare. Poi parte per l'Europa e conduce una vita picaresca nelle grandi metropoli - Parigi, Monaco, Londra, Barcellona -, una vita fatta di fame, sesso e sguatteraggio. E grandi umiliazioni. Matura il senso della sua unicità che non è fatta di ribellioni illusorie e di fughe sognate su uno sfondo di mollezze piccolo-borghesi, ma è vissuta sulla sua pelle e pagata col suo sudore e il suo sangue (e mi si conceda questa eruzione retorica). Una rabbia che si fa sistema politico, che si riverserà in capolavori come Vita standard di un venditore provvisorio di collant. In una sorta di gioco di rispecchiamenti che si rincorrono, in Altri abusi, racconta di un viaggio a Charleville, città natale di Arthur Rimbaud, il prototipo del vagabondo - l'uomo dalle suole di vento. Scrive pagini mirabili su di lui e compiange quelli che, senza mai essersi mossi di casa, si sentono come il poeta francese, lo prendono a modello e non si vergognano. S'identificano e in questa identificazione si risparmiano la fatica di dover vivere e rischiare in prima persona. Nelle parole di Busi: "Ero un piccolo maledetto anch'io, senza presente, senza futuro, senza precedenti, con una fame incontenibile di sesso e di libri", e ancora: "Tutti i sedentari della poesia e della letteratura italiana e mondiale si sentono sulla stessa lunghezza d'onda di Rimbaud!". Queste parole e questi esempi pesano come macigni su di me. Loro hanno rischiato - e ora so che non si tratta solo di personaggi distanti, perché ne ho conosciuto uno - e pagato in prima persona. E io che cosa ho combinato? Confesso la mia disonestà, la mia vergogna, il mio fallimento.
Che cosa ci riserva il futuro? Anche di questo parlo con B. Rifletto che a trent'anni, normalmente, una persona ha già fatto le cose fondamentali della sua vita, ha già raggiunto una sua "maturità" - si dice. Eppure noi, a trent'anni inoltrati, ci sentiamo ancora inconclusi. Senz'altro questo vale per me. Ci guardiamo attorno e vediamo gente che procede con le sue granitiche certezze: loro sono maturi e noi no, allora? Avanzo un'ipotesi: forse fingono, erigono pilastri e ci si abbarbicano, con la forza della disperazione, finché non ci credono loro per primi e li esibiscono come patente di legittimità a chi voglia instillare in loro dei dubbi. Che cosa ci riserva il futuro, dunque? Sopravvivere sarebbe già una bella alternativa.
Perché io non riesco a fingere così bene come chi sbandiera la sua maturità? E' da quando avevo sedici anni e mi dicevano che ero "maturo" per la mia età che non capisco il significato di questa parola (e, detto per inciso, di tante altre. Anzi, la mia perplessità è direttamente proporzionale alla diffusione che caratterizza certe parole chewing-gum, così elastiche che oramai significano tutto e il contrario di tutto, a seconda dei bisogni e delle circostanze). E ora che ne ho il doppio, mi guardo dentro - negli esami di coscienza che preludono ai miei sonni -, scruto il garbuglio delle mie sensazioni e dei miei impulsi e mi domando: "Sono dunque solo io così? E' possibile? E dunque hanno tutti certezze incrollabili?". Fingono, fingono. Ma c'è chi finge bene e questo lo aiuta a navigare seguendo la corrente. (Penso a P.C., mio esatto coetaneo e amico d'infanzia, di cui mia madre mi dice che ha avuto la seconda figlia, e mi chiedo dove le nostre strade si sono biforcate e dove io ho cominciato a essere come sono).
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