I
Mi
irrita un'affermazione che sento sempre più di frequente, secondo la
quale sarebbe sufficiente "stare bene con se stessi" per stare bene
tout court e risolvere automaticamente tutti i propri problemi o quasi,
come per miracolo. Questa massima, molto diffusa ai giorni nostri, fa
la fortuna di psicoanalisti e psicologi, oltre che far risuonare un'eco
stonata da filosofia new age. E' il motto di coloro che, in generale,
trovano (o vogliono trovare) le cause di tutto quanto all'interno
dell'uomo e credono che regolando il traffico neuronale dentro la sua
scatola cranica e riducendo il mondo esterno a puro accidente
trascurabile senza importanza la vita diventerà una specie di paradiso.
Forse è soltanto una versione contemporanea dello stoicismo,
semplificata e venduta nei supermercati dell'anima.
Ma fingiamo pure
che sia tutto vero: il mondo non conta nulla ai fini del nostro
benessere, dunque, e se "stiamo bene dentro", tutto si risolverà e si
sistemerà. Mi domando tuttavia che valore abbia questo "sentirsi bene e
in equilibrio" in un mondo in cui comunque la maggioranza degli esseri
umani sta male - e per male intendo: oggettivamente male, perché, per
esempio, non ha da mangiare o di che sopravvivere. Che relazione si
stabilisce dunque tra questa realtà, tragicamente esterna, e il nostro
equilibrio? In che modo la ricerca tutta interiorizzata (e sostenuta
dalle nuove religioni, dalle nuove filosofie e dai professionisti della
cura dell'anima altrui) incide sul mondo? Per me, questo è un enigma
irrisolvibile. Quando ci penso, mi sento sopraffatto dall'essere-così
di questo mondo e a predominare è il senso d'impotenza. Poco cambia
come io mi senta dentro in quegli attimi e anzi, quando mi sento bene,
avverto anche un po' di colpa: non posseggo l'istintiva capacità di
identificarmi con il successo, per il quale nutro un'atavica e
proletaria diffidenza, pur rendendomi conto che chi ha successo spesso
lo ha perché si è innanzitutto pensato come individuo di successo e vi
ha subordinato tutto il resto.
"Stare bene dentro" mi sembra dunque un'affermazione narcisista. Legittima, in un certo senso, ma priva di valore assoluto e oggettivo. Narcisista, quindi. Il narcisismo, più che un irrimediabile innamoramento per se stessi, è - sosteneva il sociologo americano Christopher Lasch - l'incapacità dell'individuo di distinguere tra sé e il mondo, tra il dentro e il fuori: Narciso si perde non perché invaghito della sua bella immagine riflessa nello specchio d'acqua, ma perché non riconosce che quello specchio d'acqua non è lui stesso, ma è "altro da lui", è il mondo. Vi si butta e muore. E' lo stesso principio per cui chi "sta bene con se stesso" pensa di avere fatto i conti con il mondo, che tuttavia lo aspetterà in agguato al primo angolo di strada.
II
Mi capita di riflettere sul concetto di malattia per come viene inteso oggi (e, ovviamente, anche sul concetto di salute e prevenzione: insieme fanno un minimal pair obbligato). Forse è assurdo e insensato credere che tutto debba essere curato e forse la malattia è la condizione normale dell'individuo - non mi riferisco qui alla malattia devastante che, come un uragano, spazza via tutto e distrugge la vita di un individuo. Forse non esiste un individuo davvero "sano" e la salute totale, il benessere totale sono un'utopia o, peggio, una costruzione ideologica, razionalizzante e consolatoria. Chi l'ha detto, insomma, che il corpo debba per forza essere una macchina ben oliata e, soprattutto, una macchina che non fa sentire la propria presenza? Noi riteniamo infatti di stare bene quando viviamo nell'ignoranza del corpo: i suoi organi non manifestano la loro presenza. Chi, infatti, se non quando sostiene di essere malato, si rende conto di avere dei polmoni, un cuore, un fegato, un pancreas? Chi ha stabilito che la condizione a cui tendere sia quella di cancellare il corpo nella nostra percezione? Questo presupposto ha senz'altro a che fare con la progressiva medicalizzazione della nostra società. Mi chiedo se esista un'intenzionalità, ossia un vero e proprio progetto politico. I farmaci vanno venduti e condizioni psichiche o fisiche che un tempo sarebbero passate sotto silenzio ora sono degne di essere analizzate e curate. Chimicamente, va da sé. E naturalmente si scoprono disturbi nuovi, e quando non se ne scoprono si inventano (gli americani sono specialisti in questo campo).
Collegato a questa premessa c'è il discorso della prevenzione a tutti i costi: la diminuzione dei fattori di rischio che garantirebbe uno stato di salute ottimale. Naturalmente, si tace il fatto che esistono fattori imperscrutabili che nessuna prevenzione può neutralizzare e che nessun metodo scientifico-matematico può districare, fattori tautologicamente spiegati con i "geni" - e quindi non spiegati affatto - oppure cause intricate e ripescate dal calderone della psiche e a loro volta non analizzabili nel loro peso singolo. (Sospetto comunque che anche il concetto di prevenzione abbia un valore funzionale: leggevo qualche giorno fa di un programma per i dipendenti del ministero della Salute, con lo scopo di applicare a loro per primi una serie di iniziative volte a prevenire alcune malattie. Non menziono alcuni provvedimenti che, di per sé, a me sembrano più adatti a fomentare il timore delle malattie e l'ipocondria che non a combatterle, ma mi ha colpito l'osservazione conclusiva, quasi inserita per caso: i soggetti sani, concludeva in sostanza l'articolo, sono più produttivi. Vero, ma non mi suonava come una verità innocente. Ecco, mi sono sospettosamente detto, che il discorso sulla prevenzione non è poi così disinteressato. Niente di nuovo sotto il sole.)
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