Comincerò con una similitudine – e una similitudine biecamente consunta, se è per quello –, ovvero: internet è come una piazza o, per meglio dire, internet è pubblico quanto è pubblica una piazza. Immaginiamoci dunque la piazza media di una città media. Italiana, perché anche la lingua che usiamo è l’italiano, salvo qualche piccola eccezione. In una piazza passano un po’ tutti e succedono tante cose, non tutte piacevoli, perché ognuno ha la propria concezione di ciò che è lecito o accettabile fare in una piazza. Certo, io immagino la piazza in senso anche nobile come agorà, un luogo dove la gente s’incontra per discutere e dibattere, raccontarsi le ultime novità: c’è chi parlerà di filosofia e c’è chi invece si limiterà ai pettegolezzi più freschi. Qualcuno sta in disparte e ascolta, qualcun altro si limita a guardare il paesaggio attorno a lui, la gente che va e viene, la chiesa (siamo in una città italiana e nella piazza principale c’è sempre una chiesa), qualche bar e qualche negozio. Magari ha appena finito di lavorare ed è lì ad aspettare che venga sera. Di chi è lo spazio pubblico? Di tutti, verrebbe da dire, e quindi dovrebbe essere trattato con la cura che riserviamo (o saremmo tenuti a riservare) alle cose della collettività. Però siamo in Italia, dove molti pensano che ciò che è pubblico in realtà non sia di nessuno, quindi può essere calpestato, rovinato o distrutto: tanto spesso gli hanno recitato il mantra della sacralità e della naturalità della proprietà privata, del particulare, che non riesce più a concepire nemmeno l’idea che esista qualcosa che sia di tutti. La piazza, dunque, non è solo teatro di amene discussioni. Ci sarà chi, in preda a bisogni impellenti, si aprirà la patta e piscerà dove gli capita, magari guardandosi bene attorno affinché nessuno lo veda (magari è notte fonda, magari sono le cinque di mattino e la piazza è ormai deserta), qualcun altro porta il cane a sgranchirsi le zampe, e il suo adorato animale, ringalluzzito dalla serotina aria fresca, deposita sul marciapiede una bella merda fumante che il proprietario si guarda bene dal raccogliere. Altri sputacchiano qui e là, qualcuno getta per strada mozziconi di sigaretta o cartacce – un gesto quasi automatico e, si direbbe, se non c’è intenzione non c’è dolo –, qualcun altro ancora, alzato troppo il gomito, si mette a sbraitare ad alta voce e a importunare le passanti oppure vomita la sua ultima cena; alcuni ragazzotti saltano sui loro motorini a cui hanno truccato il motore e sgommano via lasciando una nuvola di fumo dieto di sé e assordando tutti gli altri. Poi, quando si fa buio, c’è anche chi si diverte a imbrattare i muri – senza alcuna velleità o capacità artistica – o a divellere i segnali stradali. Il luogo, insomma, è pubblico e quindi succede di tutto. Non è detto però che tutto sia possibile, piacevole o lecito. Ma ammettiamo pure che lo sia, piegandoci alla rassegnata constatazione che gli esseri umani sono quello che sono e che libertà individuale sia sinonimo di arbitrio e che questa sia l’unica forma di democrazia che l’individuo medio conosce. Internet ha un suo spazio pubblico che corrisponde a questa piazza ed è quello spazio in cui ognuno, senza doversi identificare – come non ci si identifica andando in piazza –, può dire e scrivere quello che vuole: c’è chi ha il senso della misura e chi di questo senso è sprovvisto. Non ci si può fare nulla: i forum di discussione, se non sono moderati, danno l’accesso libero a chiunque. Possiamo rammaricarcene, ma non fare nulla. Io, tuttavia, non gestisco un forum pubblico. Riprendiamo la similitudine: sulla piazza si affacciano degli edifici. In alcuni vi sono dei caffè, dei bar, delle osterie – chiamiamoli come vogliamo – in cui si può entrare, prendere qualcosa, parlare, stare in compagnia. Magari vi sono anche dei circoli culturali o dei club politici. Poi vi sono delle abitazioni e anche in alcune di queste abitazioni si può entrare, invitati dal padrone di casa. In altre non si può entrare, ma siccome fa caldo – siamo in Italia, magari in meridione –, il proprietario lascia la finestra aperta e chi passa può dare una sbirciatina dentro (la curiosità è umana). Queste case o questi locali, benché chi li gestisce o chi li abita consenta al pubblico di entrare, non sono pubblici nel senso in cui lo è piazza, che, pur essendolo, meriterebbe comunque il rispetto che meritano le cose che sono di tutti. Io vedo i weblog esattamente come queste case che si affacciano sulla piazza. Questo weblog, che ora qualcuno sta leggendo, è casa mia e io vi concedo di entrare e di mostrarvi alcune cose. Quello che io qui mostro non è tutto quello che penso, non è tutto quello che scrivo, non è tutto quello che provo, non è tutto quello che vivo, non è tutto quello che so. E’ una parte, quella parte che, per svariate ragioni, io ritengo possa essere d’interesse per qualche lettore (forse per pochi lettori). E', da parte mia, anche un'esplicita e dichiarata testimonianza di affetto nei confronti di sette o otto persone che conosco di persona e che so che, di tanto in tanto, mi leggono e per le quali io ho cominciato a pubblicare qualcosa in rete. Altre se ne sono aggiunte, che a poco a poco mi sono diventate care. Non gradisco quindi che qualcuno entri in casa mia, nonostante la porta sia aperta, e si ritenga libero di prendermi a schiaffi, di insultarmi o, giusto perché gli scappa, di mettersi a scagazzare in soggiorno. Questo, se vuole, lo può fare a casa sua. Fuor di metafora: aprendo a sua volta un weblog e rivelando al mondo – che non desidera altro – i suoi pensieri, se ne ha, e deliziandolo con le armoniose forme della sua scrittura, se ne è capace. Quello che io scrivo sul mio weblog non ha la funzione di allietare o divertire e quindi non mi curo di dover produrre un certo effetto su chi legge. Mi spiace se qualcuno, annoiato e in cerca di svago, capita nel mio weblog e, vuoi perché ha digerito male, vuoi perché gli dolgono le emorroidi, vuoi perché da tempo non riesce a chiavare come dio comanda, si sente frustrato perché non l’ho fatto ridere, non sono stato abbastanza ironico o spiritoso o perché sono troppo "intellettuale" o, viceversa, troppo "sentimentale". Non è questa la funzione che mi sono imposto. Questo mio weblog – al di là degli esiti – è un weblog sincero di un individuo abbastanza riconoscibile che si espone in prima persona. Un individuo mite, che accetta le critiche motivate e gli spunti di discussione, che, spesso, per la sua mitezza innata, preferisce fingere di non aver sentito o non aver visto, ma che non segue fino in fondo il precetto cristiano del porgere l’altra guancia, perché cristiano non lo è. E l’ira dei miti è, si sa, particolarmente burrascosa.
Io sono convinto che chi si comporta in un certo modo nello spazio virtuale – magari nascondendosi dietro l’anonimato o dietro improbabili soprannomi – non si comporti molto diversamente nella vita reale (anche la vita virtuale è reale, vabbe’, ma non voglio spingermi troppo in là). A un basso grado di coscienza quando si “commenta” su internet corrisponderà un grado altrettanto basso di coscienza quando si interagisce con uomini e donne veri – ovvero, in carne e ossa. La sensibilità, una volta appresa, è quella: nella vita reale e in quella telematica. Lo stesso vale per regole fondamentali dell’educazione. Ritorniamo alla similitudine iniziale: la piazza è internet, le case che si affacciano sulla piazza – ma che non sono, se non in senso lato, la piazza – sono i weblog che molti di noi gestiscono. Fino a che punto si può tollerare la maleducazione in piazza o in casa propria? Non so, ognuno decida per sé. In un caso solo, però, ritengo, il limite è superato ed è quando qualcuno entra in casa di un’altra persona (ovvero: nel suo weblog) e approfitta dello spazio che gli è concesso non tanto per smerdare o insultare il proprietario di quel weblog, bensì i suoi amici e conoscenti, che magari sono passati di lì o che, addirittura, in quel momento sono assenti. Io credo che questa sia una forma di meschinità e di infamia intollerabile: non è possibile giustificarla con l’anonimato, perché a emergere, comunque, è il tratto fondamentale del carattere di un individuo, in modo diverso a seconda delle circostanze che gli si presentano. Io con queste persone non intendo avere nulla a che fare.
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