L'ultimo giorno che ero a Berlino (in realtà ci tornerò dopodomani, ma per restarvi qualche ora, perché poi la sera dovrò prendere l'aereo) e camminavo nel parco di Treptow sono stato colto da una delle mie frequenti crisi di amor folle per la città e, guardando un albero dalla chioma tutta rossa - un colore inaudito, mi spiaceva solo, proprio quel giorno, di aver lasciato la macchina fotografica a casa -, ho pensato, tutto concitato: "Un altr'anno mi prendo tre settimane di ferie di fila, affitto ancora questo appartamento e ci vengo a stare per tre settimane, e poi, e poi... per ogni fine settimana o per qualche giorno invito tutta la gente a cui tengo e che non ha mai visto Berlino, o non l'ha mai vista come dico io, faccio io da guida, così mi stacco dal mio vano girovagare: invito M.S., ancora, invito D. e S., invito A. - a costo di farle passare la paura dell'aereo -, invito R.S. e Ma.S... Tutti devono vedere questa Berlino che vedo io ora". In realtà, ogni volta che vado a Berlino, mi rendo conto che sto cercando di trattenere qualcosa che inesorabilmente sfugge e se ne va: un pezzo del mio passato. E' come se, tornando a battere e ribattere quei luoghi, trattenessi per un lembo del vestito un me stesso che in realtà è in procinto di finire in un precipizio. Il tentativo è sempre più disperato, forse è vano, e rischia di diventare un peso che mi ancora a un passato che non c'è più. Dal 1994 sono tornato parecchie volte a Berlino, ma stavolta ho sentito più delle altre volte questo legame e confronto con quel semestre universitario perché, a differenza dei miei viaggi di piacere, durante i quali ho sempre alloggiato a ovest (Charlottenburg, Wilmersdorf, Schöneberg o Steglitz), stavolta ho affittato un appartamento a Prenzlauer Berg, una zona che frequentai moltissimo quando studiavo a Berlino, poiché abitavo a Lichtenberg. Stavolta, insomma, l' "est" non era meta di escursioni, ma era la base fissa in cui stare. Per questo motivo, stavolta, ho sentito in modo più forte e lacerante un senso di perdita e di nostalgia.
Camminando per Lipsia, in questi giorni, mi accorgo di quanto a Berlino mi sia sentito a mio agio. Senza quasi nemmeno rendermene conto, per altro, ma era quasi come se fossi a casa. Dopo anni Berlino mi ha dato il piacere di farmi sentire quasi integrato. Senza contare che, a confronto dei lipsiensi, anche i berlinesi sembrano più espansivi. Qui a Lipsia, poi, mi mancano le coordinate, non so esattamente dove andare e a me non piace moltissimo muovermi da "turista puro". Quale sarà mai, per dire, il quartiere in movimento, al di là del centro ormai così "aufgeputzt", ripulito? Ho letto che dovrebbe essere la parte appena a sud del centro, quello racchiuso dalla strada anulare - strada che ha la simpatica caratteristica di non avere attraversamenti pedonali, sicché bisogna lanciarsi a rotta di collo per passare da un lato all'altro o solo per prendere il tram che si ferma in mezzo alla carreggiata -, così oggi sono andato a farmi un giro in questa Karl-Liebknecht-Straße (la "KarLi", per gli abitanti), che è sicuramente meno elegante del centro, più ruspante, ma non è niente di speciale e mi ha lasciato un senso di strano disagio e incompletezza. Lipsia, insomma, è visibilmente bella ed elegante, ma non mi entra dentro, non mi emoziona (come mi ha emozionato ieri Halle, invece). Mi piace molto, però, l'Augustusplatz, così nuda ed essenziale, con quei pochi edifici di stile così discordante.
In questi giorni fatti di grandi camminate (ieri, per dire, sono uscito verso le otto di mattino dall'albergo e sono rientrato dopo le ventitré), mi è tornata in mente una considerazione di E.M. Cioran, il quale - cito a senso - ritiene che è impossibile pensare veramente quando si cammina, quando si è in movimento, quando si è, addirittura, in posizione verticale. In questi casi si fa e basta: lo sto constatando anch'io adesso, infatti. L'uomo che cammina e agisce vede il suo pensiero come un'appendice dell'azione, che per lui è, in quel momento, il fatto primario. Si fa e poi, eventualmente, si pensa. Viceversa, basta sedersi o, peggio ancora, coricarsi per essere sopraffatti dal demone della riflessione, che presto degenera in malinconia o in pensiero che si attorciglia su se stesso per precipitare poi nel nulla.