Chiariamo: non ho fine settimana liberi, ma solo scampoli di tempo che riesco a incastrare con i fine settimana liberi degli altri e, così, di tanto in tanto, fingo anch’io di essermi fatto il weekend.
Sabato pomeriggio D. e io abbiamo percorso in bicicletta il naviglio della Martesana fino a sbucare in piazza Costantino: in realtà avevamo una meta, ovvero un negozio di mobili e arredamento etnochic da quelle parti. I soliti prezzi esosi per prodotti che, a conti fatti, non li giustificano, ma anche questa è Milano. Il naviglio della Martesana è completamente prosciugato: in alcuni tratti c’è solo una melma paludosa che emana afrori cloacali. Mi hanno colpito soltanto i gatti che zampettavano dove c’era l’acqua e che, per un momento, sfrecciandovi davanti in bicicletta, scambio per pasciute pantegane. E, in un orticello digradante verso il naviglio, una piccola bandiera dell’Unione Europea che qualcuno vi ha piantato. Secondo D. l’immagine è una metafora politica sullo stato dell’Unione. D. mi rammenta le parole di un politico milanese, abbastanza decorato, secondo cui i navigli milanesi e i loro ponticelli nulla hanno da invidiare alla Senna e ai ponti di Parigi.
Ieri, con M.S. e V., mi concedo – essendo di insolito buon umore e poco propenso a esercizi di antropologia pratica – una serata in una nota discoteca gay alle porte della città, con buffet e spettacolo en travesti annessi. Resto, come sempre, incantato dal bar pizzeria dall’aria neorealista che condivide il marciapiede con la discoteca e dalle frequentazioni miste del locale (in cui, per l’occasione, non si fanno le cosacce) che, oltre ai soliti “culattoni” (autorizzazione e copyright ministeriali concessi), comprende casalinghe di mezz’età e qualche signore dall’aria funebre di cui non saprei dire la sessualità. Il buffet è un martirio per il vegetariano, va detto: ci vado una volta ogni sei mesi e trovo sempre le stesse cose, che corrispondono al mito carnivoro della massaia media italiana. Mangio qualche finocchio (l’ortaggio), privo i piccoli panini del salume interno – che passo a M.S., non senza avergli prima rotto i coglioni sulla perenne discriminazione nei confronti dei vegetariani, con V. che mi dà ragione, anche se a volte sospetto che mi dia ragione come si dà ragione alle vecchie zie petulanti, oppure butto direttamente nel cestino – e mi abbuffo di uva e fette di pizza al pomodoro. La sala resta quasi deserta tutta la serata, rendendo l’atmosfera piacevole e vagamente decadente. Quando comincia lo show tutti si concentrano ai bordi della pista e la penuria di avventori si rivela in tutta la sua drammaticità. Io guardo un po’ lo spettacolo e un po’ l’unico ragazzo che mi attrae: non è particolarmente bello, con il suo naso adunco, ma ha qualcosa di particolare (e, spesso, il fascino lo esercita il ricordo – non traducibile in parole – che alcuni individui risvegliano in me). E, soprattutto, gli fisso le mani, non riuscendo a stabilire se siano belle o no. Al momento di andare via non mi è ancora passato il buon umore e, considerato il luogo e il tempo, lo ritengo già un successo.
L’attività sessuale saliente di questi giorni è consistita in questo: un battito di ciglia compiaciuto e un po’ rapito quando vedo, nudo sotto la doccia della palestra, un ragazzo cui fino ad allora non avevo prestato troppa attenzione. Ha la pelle bianchissima e glabra che piace a me, con un corpo che sembra indeciso tra l’essere sodo e l’essere flaccido – e questo vale soprattutto per i glutei –, ma si ferma in bilico, né troppo di qua, né troppo di là. Anche la voce, quando la sento, ha un’eco di androginia che percepisco come una carezza interiore. Di lui non so nulla, ma ricordo che un paio d’anni fa l’avevo visto, nella stessa palestra, leggere Beowulf.
E poi, naturalmente, si è letto, tradotto, scritto. Le solite cose.
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