I - Politici e moderni cortigiani
Leggo oggi, in una libreria - e solo perché mi ci è caduto sopra l'occhio e senza neanche arrivare fino all'ultima riga per via dell'incazzatura istantanea che mi prende - il vomitevole fondo di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera di ieri, a commento delle ormai famigerate parole di due ministri balanocefali della Repubblica (res publica, ovvero: cosa di tutti, è opportuno ricordarlo, ogni tanto). Non sono solo queste parole a irritarmi profondamente - benché m'infastidiscano davvero, soprattutto visto che arrivano da due cariche istituzionali -, ma è soprattutto l'atteggiamento del notista politico a farmi infuriare: in modo forbito, capzioso e neanche troppo surrettizio, lui li giustifica. Del resto siamo abituati a leggere i pezzi di Galli della Loggia, che sono sempre delle favolose lecchinate genuflesse. Una vera e propria merda filogovernativa, sempre. E' come quegli "intellettuali" che, con mille argomentazioni cervellotiche, cercavano, ai tempi, di giustificare le politiche criminali di fascisti e nazisti, o quanto meno di scusarle, e così facendo di fatto le approvavano. In questi casi un giornalista dovrebbe avere anche una funzione critica e non limitarsi al puro zerbinaggio intellettuale. Poi, il titolo è una vera vaccata: "Una triste Europa politically correct". Mi chiedo quale caporedattore imbecille l'abbia partorito e, soprattutto, in che paese viva - a meno che non si tratti del paese delle meraviglie dei privilegi concessi ai giornalisti del Corriere della Sera, beninteso. Come dimostrano le parole dei due preclari ministri, se c'è una cosa che in Italia non esiste è proprio questa "correttezza politica", dato che proprio loro possono trascendere in un modo che in Germania o in Olanda non sarebbe loro concesso, perché sconfinerebbe già nell'incitamento all'odio razziale, punibile per legge (quella stessa legge contro le discriminazioni basate sull'orientamento sessuale che, nonostante inviti in tal senso da parte dell'Unione Europa, la Repubblica Italiana non ha ancora voluto promulgare). Insomma, da noi si può dare impunemente del "frocio" o del "culattone" e lavarsene le mani e i piedi. Il popolo bestia applaude e la ministra per le pari opportunità dice che, ma no, non è mica niente. E se dessero a lei della "troia", dico così, per amore di accademica disquisizione?
Quell'aggettivo, poi, nel titolo: "triste". Triste sarà - temo - il buco del culo di Galli della Loggia o dei capiredattori centrali del Corsera. A vederli, non si fa fatica a dubitarne.
II
Anche oggi mi sono allontanato da Lipsia per visitare Jena, in Turingia. Jena vale la pena di essere visitata anche solo per il fatto che, arrivando, si approda, letteralmente, in Paradiso. La stazione si chiama infatti Jena Paradies... e non è una stazione, ma sono due binari, affiancati da un marciapiede e da un corrimano di legno, all'interno di un parco attraversato dal fiume Saale. Risalgo verso il centro e la mia prima meta, oltre la tradizionale piazza del mercato, è la "Romantikerhaus", il museo dedicato alla storia del primo romanticismo, che ebbe in Jena uno dei suoi centri principali. Uno dei primi a trasferirsi lì fu Friedrich Schiller, che nel 1789 divenne docente di storia all'università locale e radunò intorno a sé la crème degli intellettuali del tempo: i fratelli Schlegel, Fichte, Hölderlin e così via. Jena, più di Weimar, era una città borghese e, quindi, più aperta alla sperimentazione di nuovi stili di vita, magari un po' "bohémien". E per i primi romantici non si trattava solo di teorizzare, ma di vivere anche in modo diverso. Il museo raccoglie un po' tutta la storia di questo gruppo di persone, che formò, appunto, il nucleo fondante del romanticismo tedesco, dalla fine del diciottesimo secolo all'inizio del diciannovesimo, quando, a poco a poco, se ne andarono tutti.
Camminando per il centro incrocio due ragazzi e una ragazza italiani (toscani, direi dall'accento) che parlano di corsi di lingua, di letteratura... Studenti erasmus, e a Jena! Chi l'avrebbe mai detto... Per il resto, in centro, da qualunque parte ci si giri si vede l'enorme e moderna torre Intershop, luccicante e tondeggiante. Il forte contrasto con gli elementi storici non è neanche del tutto sgradevole, in questo caso. Poi vado a fare due passi al Johannisfriedhof, il cimitero storico della città - ormai non più usato per le sepolture, ma semplicemente come giardino pubblico: si cammina in mezzo a vecchie lapidi e pezzi di marmo, sotto le ombrose fronde, e io mi sento un po' un novello Ossian, quando mi siedo su una panca e addento un uovo sodo e una mela, e penso di avere calpestato chissà quanti cadaveri.
L'ultima visita la faccio alla casa di Schiller, dove il poeta abitò dal 1797 al 1802. Mi apre la guida, un ometto piuttosto anziano, che mi accompagna per le stanze e mi spiega che cosa sono. Ha un accento spaventoso, che non ho mai sentito in vita mia: dev'essere il tedesco di Turingia che suona così. Fatico a capirlo e devo concentrarmi molto per non perdere il filo di quello che dice (e a volte lo perdo). Inoltre ho la sensazione di essere andato lì a rompergli i coglioni e basta: sono l'unico visitatore, infatti, e le spiegazioni sono molto sbrigative. Pare che stia recitando un testo appreso a memoria e ripetuto migliaia di volte, a macchinetta. Capisco che Schiller soffriva di asma - i grandi intellettuali, probabilmente, sono tutti un po' malaticci - e perciò dormiva separato dalla moglie (vedo le due camere da letto, infatti). Poi era anche un animale notturno (un "Nachttier", mi dice la guida, aggiungendo: "Come direbbero i giovani d'oggi") e scriveva spesso di notte. Mi mostra lo "stehendes Schreibpult", lo scrittoio in piedi, fatto apposta per scrivere e appoggiarci i gomiti: lui non ci arriva, mi dice, io invece sì e gli faccio notare che allora Schiller doveva essere abbastanza alto. "Eh sì", mi dice il tipo. "Era senz'altro più alto della media degli uomini del tempo". Lasciato alla mia libera iniziativa, esco in giardino, dove in fondo ci sono due altre piccole costruzioni: una cucina e un'altra stanza da lavoro. Vedo anche il tavolo di marmo a cui Goethe e Schiller si sedevano e parlavano, di politica e letteratura (non che io lo sappia, ma me lo rivela una targa che riporta le parole di Goethe a Eckermann nel 1827). Alla fine me ne vado, ritorno in "paradiso" e prendo il treno per tornare a Lipsia. Stavolta niente treni superveloci, tanto che mi tocca cambiare due volte: a Naumburg an der Saale e a Weißenfels.
Tra le scoperte di ieri, sfogliando un libro nella libreria dello "Zeitgeschichtliches Forum" di Lipsia - il museo permanente dedicato alla storia delle Germanie dalla fine della guerra a oggi (uno dei migliori che abbia visto finora, detto per inciso) - scopro che negli anni ottanta, nella DDR, c'era un gruppo musicale punk che si chiamava "Cadavre Exquis". Et voilà.
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