Da qualche parte, all’inizio della sua autobiografia, Christopher and his kind, Christopher Isherwood, rievocando il periodo trascorso a Berlino nei primi anni trenta, parla dell’aura sessuale che per lui permeava la lingua tedesca. Il “Tisch” (tavolo) in tedesco non era più il “table” inglese, ma irradiava un desiderio erotico, perché connotava ormai il tavolo dei locali gay che lo scrittore frequentava ai quei tempi in quella che, forse, era la capitale omosessuale d’Europa. Quando le lesse per la prima volta, anni fa, l’estensore di queste note si ritrovò subito nelle osservazioni di Isherwood, perché anche su di lui la lingua tedesca e, in qualche modo anche la Germania tutta, esercitano una fascinazione erotica, dovuta al suo imprinting sessuale – le prime esperienze di qualche rilievo e le cose che ha fatto “per la prima volta” sono avvenute o a Berlino o in Germania, da qualche parte tra Colonia e il Ruhrpott – e a una prassi consolidata nell’esercizio della sua omosessualità, tanto da avere l’impressione, non del tutto campata in aria, di attaccarsi a volte al cazzo di certi tedeschi come il neonato al seno materno.
Andare a Berlino è quindi, anche, calarsi nuovamente nel magma incandescente del suo desiderio sessuale, tornare ad abbeverarsi alla sorgente primaria da cui sgorgano i suoi fantasmi erotici più radicati. Poco importa che il tempo e gli altri viaggi gli abbiano dimostrato che anche altrove abitano uomini forse più belli e più disponibili: la sua esperienza sfida ogni concetto logico.
Durante l’ultimo soggiorno nella metropoli sulla Sprea, l’estensore alloggia in un appartamento a Prenzlauer Berg, nel bel mezzo di una specie di Eldorado finocchio: ci sono almeno quattro locali nella sua via e nelle due vie immediatamente adiacenti, e sono tutti postacci dove si fanno le cosacce, non sono né circoli culturali, né caffè per vecchie zie. E’ evidente che farà visita a questi e altri posti, intraprendendo viaggi sotterranei nella città, per fare scorta – come se fosse possibile, pur sapendo che non lo è, come già ebbe modo di scrivere – di sesso vissuto in vista dei tempi di carestia sessuale.
I nomi dei posti sono evocativi e strizzano l’occhio all’avventore, promettendogli inaudite scostumatezze: Stahlrohr (Tubo d’acciaio), Greifbar (Afferrabile o a portata di mano), Darkroom (ma questo non lo visiterà: gli si conceda una serata di sonnolenza), Triebwerk (Motore, ma in realtà si tratta di un sottile gioco di parole, perché “Trieb” significa anche impulso sessuale) o Ficken 3000 (Scopare nel 3000) - a Kreuzberg questi ultimi due. Naturalmente la sua passione è anche e soprattutto una passione dell’occhio: ama guardare, immaginare, ancora più che fare. O forse ha esercitato così a lungo il divorzio tra l’agente e l’osservatore che ora riesce a entrare in quei posti soltanto dimidiato, accompagnato da un altro sé che lo guarda. Lo guarda ma non lo giudica, certo. Si rende conto di avere perso l’ingenuità che aveva in passato, quando gli bastava poco per soddisfare le sue pulsioni sessuali, che ora si sono fatte più complicate e più carsiche. E’ diventato, come tanti omosessuali, un blasé. Quando si aggira per corridoi poco illuminati, per antri dove riecheggiano sospiri, quando sbircia dentro cabine senza porte, più che il desiderio, a destarsi sono il sospetto e il timore: ormai vede micosi, batteri, virus dappertutto, nonostante la scorta di capotes anglaises che porta con sé e che farebbe felice i consigli d’amministrazione di qualsiasi industria della lavorazione del lattice. A volte il sesso immaginato lo diverte di più, perché gli costa meno fatica e gli apre possibilità che la realtà non uccide con la sua durezza e il suo essere-così-com’è. Ma vuole fare fino in fondo il suo dovere di finocchio che va a battere e quindi si concede.
In uno di questi postacci si lascia tendere un’imboscata e finisce, per esempio, per sodomizzare un ragazzo che non corrisponde al suo fantasma, anche se va a colpire uno strato più profondo del suo desiderio sessuale, risvegliandolo. Non è biondo ed esile e germanico, non è glabro, bianco e con gli zigomi pronunciati, addirittura sembrerebbe italiano o spagnolo, ma proprio per questo, poiché non si scontra con nessuna immagine precostituita, il cronista gode di un piacere che è immediato e non filtrato da schemi prestabiliti. Naturalmente finisce per essere anche un’esibizione semipubblica: un capannello di astanti li circonda, in genere sono abbastanza rispettosi (nessuno tenta di incularlo a tradimento: al massimo qualcuno si smanazza con aria assorta) di fronte al mistero che si sta manifestando ai loro occhi. Tuttavia deve difendersi dalle reiterate profferte di un uomo, un cultore del sesso democratico – ovvero: si fa scopare da tutti, indiscriminatamente –, il quale, incantato dalla sua prestazione e dalla conformazione del suo membro virile, continua a proporsi come prossimo sodomizzando. L’estensore di queste note non è affatto propenso a dargli soddisfazione e lo rimbrotta bonariamente dicendogli: “Ich kann doch nicht jeden ficken! Du musst dir einen anderen Lieferanten finden...” (Non posso mica scopare tutti! Devi trovarti un altro fornitore…), e si limita a scrollare le spalle quando l’altro, chiedendogli di farglielo succhiare, garantisce che non glielo morderà mica. Gli spazi, quando gli spettatori si assembrano per guardare, diventano carnai angusti e il sudore stilla copioso. Da uno di questi drappelli, da cui emergono grugniti e mugugni, qualcuno proclama: “Das ist geil!”, e un altro, spiritoso, traduce, per i non germanofoni presenti: “That’s good in German”.
Altrove il cronista troverà invece due ragazzi di origine asiatica – non gli si chieda di dove, né dove residenti, perché non saprebbe dirvelo – che gli porgono il culo. Ormai lui si è rassegnato e sa che i suoi viaggi nel sottobosco gay di Berlino lo costringeranno quasi solo a essere attivo, nonostante i pruriti che prova lui per primo, nonostante l’insoddisfatto desiderio di essere piegato a sua volta a novanta gradi e servito come si deve. Grato di quello che il destino gli presenta sul piatto, assolve il suo compito. Uno dei due ragazzi è particolarmente attivo – nel senso che si dà molto da fare – e, dopo essersi fatto penetrare due volte dall’estensore di queste note, quando lo vede vagare per i corridoi del locale, lo prende per mano e lo conduce ad altri individui che stanno porgendo le terga e lo invita, con gesto della mano, a compiere su di loro la stessa azione che ha compiuto, due volte, su di lui. Il cronista qualche volta accetta, anche per buona creanza, ma poi, stanco, rifiuta le ultime offerte. Non dimentica mai, in nessuna occasione, la funzione educativa dell’omosessuale illuminato e, conclusa la sodomia, si strappa sempre via il preservativo dal cazzo, con gesto plateale, affinché nessuno si faccia inutili illusioni.
Il desiderio sessuale dell’estensore è spesso una freccia che scocca dal cervello e aggira gli organi genitali; è un’entità che concentra la sua forza proprio quando le viene impedita di sfogarsi in modo tradizionale (cioè infilando il membro virile in qualche pertugio o facendosi infilare i propri pertugi). E così riscopre il piacere della mano e si rende conto che anche il palmo della mano può essere una zona erogena: lo scopre accarezzando a lungo, le mani a coppa, i glutei di un ragazzo che è così indaffarato a farsi succhiare da qualcun altro da non respingere il suo tocco. Allora tutta la libido del narratore si scarica, come una tempesta elettrica, dal suo cervello, scendendo lungo il braccio e concentrandosi sulla punta dei polpastrelli. Il tocco di quelle rotondità gli provoca un’erezione ancora più forte che non se lo stesse sodomizzando: non c’è più nemmeno l’ombra dell’ansia di prestazione.
In un altro locale, dove non farà nulla personalmente, assiste invece a uno spettacolo gratuito, con il fiato sospeso e il cazzo duro, come i pochi altri astanti, perché si rende vagamente conto che sta assistendo a una specie di mistero. E’ una funzione religiosa, quella che si sta celebrando, si direbbe. Due ragazzi – di cui uno, in precedenza, si era distinto per una certa alterigia e per l’indifferenza che ostentava nei confronti di tutti quelli che lo avvicinavano – si sono completamente denudati. Uno dei due, il ritroso di prima, ha i calzoni completamente abbassati fino alle caviglie ed è proprio lui che si sta facendo sodomizzare, con metodo e lentezza, dall’altro, godendo molto del fatto di essere esposto agli sguardi di noi che siamo lì attorno e di esibire così il suo bel corpo giovane, magro, liscio, efebico. Lo spettacolo è “sacrale” perché gli spettatori non intervengono, si tengono a debita distanza e osservano gli officianti con il dovuto rispetto. Se credesse in una divinità, l’estensore di queste note la ringrazierebbe per avergli concesso la possibilità di assistere a questo (e altri) miracoli: loro forse non lo sapevano (o lo avvertivano solo oscuramente), ma stavano inscenando una delle possibilità della bellezza.
D. ha spesso detto, ironicamente, al qui presente cronista che tutti questi sono luoghi frequentati da veri intellettuali, aggiungendo che bisogna avere almeno una laurea per permettersi di entrarvi. In effetti, quando il cronista chiedeva a M.H. dove avesse conosciuto il tal professore universitario, il tale scrittore, il tale attore teatrale, la risposta giungeva rapida: “In sauna, ovviamente”. Anche R.S. ama dichiarare: "Intellectuals are the filthiest of the lot". E, a dire il vero, la prima sera – sera in cui il vostro narratore non conclude nulla, un po’ per la stanchezza del viaggio, un po’ per il suo naturale nervosismo, un po’ per il luogo angusto –, egli si sente rivolgere la parola da un giovane uomo, adornato da un Prince Albert, che lo sprona a un maggiore interventismo. Non faranno nulla, ma converseranno a lungo: la conferma delle tesi di D. Il soggetto in questione, di cui taccio il nome, è americano, vive a Berlino da diversi anni, è cantante lirico e lavora sotto la direzione di un noto direttore d’orchestra, che chiameremo, per chi se ne intende, soltanto D.B., gli cita Robert Louis Stevenson, e gli rivolge una specie di predica che al cronista fa pensare alle pazienti analisi di A. Un vero intellettuale.
A chi interessasse, l’estensore segnala l’apparentemente irreversibile declino delle saune gay di Berlino: non più luogo di ludibrio come una decina di anni fa, ma parcheggio di signori attempati che cercano di farsi distendere i lineamenti e cancellare le rughe dal vapore. In una sauna di Kurfürstenstraße – quella di fronte allo Zoo, che ai tempi dello studio matto e disperatissimo amava molto, e in cui da anni i proprietari non cambiano nemmeno un rubinetto – il cronista riceve persino le offerte di due amatori prezzolati (una novità, a quanto pare), che respinge non per ragioni etiche o economiche (non sa nemmeno quale fosse il prezzo), ma perché gli sembra vagamente assurdo pagare due tizi che sono, ancorché più giovani, più brutti di lui.
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