Dissolta l’Unione Sovietica, caduta la cortina di ferro e sciolto il Patto di Varsavia, sappiamo tutti ormai che cosa sono stati lo stalinismo e il socialismo reale, ma possiamo dire la stessa cosa di quello che succedeva nelle menti degli intellettuali che avevano sposato e adottato le “leggi” del marxismo-leninismo, così come erano applicate in quegli stati? E’ sorprendente leggere oggi un libro scritto all’inizio degli anni cinquanta dal premio Nobel per la letteratura polacco Czeslaw Milosz, La mente prigioniera, in assoluto anticipo sui suoi tempi. Milosz non ha mai subito il fascino della camicia di forza che la dittatura stalinista imponeva al pensiero degli intellettuali, ma ha potuto osservare da vicino le tecniche – esteriori e interiori – con cui questi ultimi, spesso volontariamente, accettavano gli insegnamenti più radicali dell’Unione Sovietica, che lui definisce il “Centro”, inteso, ovviamente, nel senso di centro che irradia la verità, che qui si manifesta in quello che lui chiama il “Metodo”, ovvero il marxismo-leninismo. Non c’è acredine nelle parole di Milosz e non c’è nemmeno la recriminazione di chi, in passato preda di un’ideologia, ne scopre le menzogne e, con atto di rivalsa, la vuole a tutti costi mettere a nudo. L’esposizione è pacata, anche quando la materia è incandescente. Nei primi tre capitoli, l’autore racconta anche l’esperienza dell’occupazione nazista in Polonia e le durezze della guerra nel suo paese: l’ordine delle cose, considerato naturale, viene spezzato da un evento di portata tragica che ribalta tutto quanto prima era scontato. “In generale l’uomo è incline a considerare naturale l’ordine nel quale vive. (…) Quale dei mondi è «naturale»? Quello di prima della guerra o quello durante? «Entrambi lo sono» pensa l’uomo al quale è stato dato di conoscerli entrambi. Non esiste istituzione, usanza o abitudine che non possa subire cambiamenti. Tutto ciò di cui la gente vive le viene dal contesto storico in cui si è venuta a trovare. La fluidità e il mutamento costante sono una caratteristica dei fenomeni, e l’uomo è una creatura così plasmabile che si può anche ipotizzare il giorno in cui attributo del cittadino soddisfatto di sé sarà il camminare a quattro zampe con un ciuffo di piume colorate sul didietro”.
Per Milosz il “Metodo” (il “marxismo in salsa russa”) è il corrispondente ideologico delle pillole miracolose di Murti-Bing: è questo il paragone con cui comincia La mente prigioniera. Murti-Bing, nel romanzo del polacco Witkiewicz Insaziabilità citato dallo stesso Milosz, è un filosofo mongolo che ha inventato un prodotto – queste pillole, appunto – che riesce a “trasmettere per via organica una «visione del mondo»”. Chi le prende, si trasforma e conquista la serenità, la pace d’animo, superando il caos del mondo moderno e il dolore che esso provoca. Ma una delle osservazioni più interessanti di Milosz riguarda proprio il confronto tra il comunismo e il cristianesimo, per quanto riguarda il carattere escatologico di entrambi: “Lo stadio del comunismo realizzato è per gli adepti il luogo sacro per eccellenza verso il quale non è permesso aguzzare la vista. E’ il cielo”. Ma non è solo l’elemento della salvezza che entrambi promettono – e non permettono di vedere realizzato nei fatti – ad accomunarli, ma sono anche certi elementi della prassi, come l’uso dei simboli, della parola (preghiere e invocazioni da un lato, slogan dall’altro) e di una certa ritualità: “L’influenza di queste riunioni [nelle ‘sale ricreative’ delle fabbriche] è simile a quella delle celebrazioni religiose, intelligentemente introdotte dalla chiesa cattolica, cosciente che la fede è più un fatto di suggestione collettiva che di convinzione individuale”, creando, grazie alla eliminazione di ogni libera discussione, una “mescolanza di razionalismo dottrinale e magia”, a tutto favore della “dottrina” (in questo caso marxista-leninista e non cattolica). Il paradosso, rileva Milosz, è però che “lo stato che, secondo le teorie di Lenin, avrebbe dovuto a poco a poco cessare di esistere è invece onnipotente e la sua spada è sospesa sul capo di ogni cittadino, che viene punito anche per una sola parola imprudente”. E non era questo esattamente quello che succedeva nelle cosiddette “democrazie popolari”, nei paesi a socialismo reale? (Anche questo, detto per inciso, un bell’eufemismo: non essendo possibile né il socialismo, né tantomeno il comunismo, puri – dato il materiale umano con cui dovevano essere edificati, in mancanza dell’uomo nuovo ancora di là da venire – ci si doveva accontentare del socialismo che c’era, il “socialismo reale”, der real existierende Sozialismus, trasferendo l’altro socialismo e l’altro comunismo – quelli veri – a un tempo e a un luogo sempre più distanti, tanto distanti da diventare mitici e, per l’appunto, assumere quasi un carattere religioso).
Unica forma di difesa è quello che l’autore chiama Ketman, prendendo a prestito un termine usato da Gobineau in un suo libro sulle religioni e le filosofie nell’Asia Centrale: si tratta in sostanza di aderire solo esteriormente ai dettami della religione (nel caso descritto da Gobineau, l’Islam), professando però interiormente quella che viene considerata la verità, oppressa dalla fede esteriore. Un procedimento che ricorda vagamente quello dei marranos spagnoli. Secondo Milosz “nelle democrazie popolari il Ketman è praticato nelle sue forme più esatte e rigorose”, dopodiché l’autore passa a elencare quelli principali: il Ketman nazionale, il Ketman della purezza rivoluzionaria, il Ketman estetico, il Ketman professionale, il Ketman scettico, il Ketman metafisico, il Ketman etico. Illuminante è, inoltre, questa osservazione: “Come costume sociale, il Ketman non è privo di pregi. E per apprezzarli, basta guardare alla vita dei paesi occidentali, i cui abitanti – soprattutto gli intellettuali – soffrono di un particolare tipo di taedium vitae, perché la loro esistenza intellettivo-emozionale è troppo dispersiva. (…) La libertà per loro è un peso. Nessuna delle conclusioni alle quali giungono ha per loro un carattere vincolante. (…) E’ a questo punto evidente che il Ketman consiste nel realizzare se stessi malgrado qualcosa”.
La mente prigioniera, però, non è solo un trattato teorico – il cui linguaggio, comunque, non è mai arido –, ma è anche una grande opera narrativa. Dopo i primi capitoli di taglio più generale, Milosz racconta le vicende di quattro persone, tutti intellettuali – romanzieri o poeti –, che chiama, senza meglio precisare i loro veri nomi, Alfa, Beta, Gamma e Delta, i quali, per i più svariati motivi, finiscono per accettare la Nuova Fede e per servire gli scopi del Centro in quella nuova Repubblica Popolare che è la Polonia del dopoguerra, fino ad arrivare a rappresentare, in un caso, lo stato polacco in un’ambasciata in Francia. Qui si avverte il narratore di stoffa che fa rivivere tutta un’epoca con i suoi personaggi e i suoi conflitti. Ognuno dei capitoli dedicati a questi individui potrebbe costituire un romanzo a sé, tanto è ricca la materia. Ma, del resto, questa è la caratteristica fondamentale del libro: una densità di pensiero e di rappresentazione del reale che avrebbe potuto generare ben più di un volume se solo Milosz avesse voluto essere più prolisso.
Czeslaw Milosz è morto il 14 agosto di quest’anno. Benché conoscessi già il suo nome, non avevo mai letto nulla di suo e l’occasione si è presentata proprio quando ho trovato, quasi per caso, La mente prigioniera in una libreria di Milano, specializzata proprio nella vendita a metà prezzo di volumi Adelphi (la casa editrice che lo pubblica in Italia) leggermente difettosi. A volte pare che siano i libri a chiamarci e non noi ad andare verso di loro – o, quanto meno, si tratta di un movimento di avvicinamento reciproco. Ho voluto scrivere qualcosa su Milosz anche per rendere omaggio a una letteratura che non frequento molto, quella polacca, ma i cui autori, tutte le volte che ho letto qualcosa scritto da loro, non mi hanno mai deluso. Penso innanzitutto all’eccelso Witold Gombrowicz, ma anche a Gustaw Herling, al grande giornalista Ryszard Kapuscinski o al giovane – ma molto promettente – Andrzej Stasiuk.
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