Abbiamo goduto ancora di due giorni di vento e di sole, che sono stati una vera benedizione. L’autunno è cominiciato, le sere si raffreddano e dopo aver lasciato aperta la finestra di notte, al mattino la cucina è invasa dall’aria fredda e il termometro segna quindici gradi. Questo tempo mi sistema i nervi, l’ho già detto, e tra ieri e oggi ho passato due giorni sereni, sorridendo dentro come non mi capita spesso, e distendendo le linee dure intorno alle mascelle, come cantava un tizio di un altro paese. Ieri sono tornato in bicicletta in una zona di Milano che non frequento più spesso come in passato, quando ancora studiavo o ci passavo in autobus per andare al lavoro quell’anno che lavorai da quelle parti. Spostarmi così mi mette di buonumore e mi fa sentire quasi libero, quasi vivo: passo per piazza Oberdan, viale Piave e arrivo in corso XXII Marzo. Se non c’è traffico – e ieri non ce n’era molto, per via dell’orario, forse – certi grandi viali di Milano hanno l’incanto speciale di far dimenticare le brutture della città. E poi a me piace il moderato Liberty di quelle zone. Di fronte a piazza Santa Maria del Suffragio, c’è una libreria che vende volumi Adelphi di seconda scelta a metà prezzo: ogni volta che ci metto piede non riesco a resistere alla tentazione e pure ieri, nonostante lo scopo dichiarato fosse cercare alcuni libri per A., sono uscito con un sacchetto colmo di volumi anche per me, come era inevitabile che fosse – e non cerco più nemmeno scuse. Al ritorno mi sono fermato ai giardini di porta Venezia, all’angolo tra via Palestro e piazza Cavour, seduto su una panchina mi sono lasciato accarezzare dal vento che, all’ombra, si faceva più freddo e mi lanciava addosso foglie e qualche insetto. Mentre uscivo ho visto un vecchio curvo, ma dignitoso, dal volto prosciugato e dal passo instabile che camminava sotto braccio a una donna – sua moglie, presumibilmente – che lo aiutava a sorreggersi, benché anche lei dovesse appoggiarsi a un bastone, e in quel momento mi sono tornati alla mente i versi di Montale: "Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale / e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino. / Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio". (Naturalmente, come sempre, mi sono chiesto che ne sarà di me alla loro età, se mi sarà consentito arrivarci e chissà come). Qualche ora dopo, A. mi ha detto, senza che io le abbia raccontato nulla, che anche lei è andata a godersi un po’ il sole e il vento nei giardini vicino a casa sua, e ha aggiunto: "Oggi c’era il tempo che piace tanto a te". Sorrido ancora perché se lo ricorda, ma anche perché, senza saperlo, abbiamo fatto quasi contemporaneamente la stessa cosa. Abbiamo spesso scherzato tra noi parlando di telepatia, perché non è la prima volta che facciamo, nello stesso istante, le stesse cose senza saperlo e senza esserci avvertiti e io mi chiedo se esiste la casualità, mentre in queste circostanze mi piacerebbe credere invece alla necessità o, irrazionalmente, a un destino iscritto nelle stelle. Stamattina mi sveglio presto, solo, nonostante sia andato a letto piuttosto tardi, e nella cucina ancora fredda mi preparo un caffè usando quello che resta dell’omaggio avuto dalla torrefazione scoperta giovedì in via Cagliero, dove ho assaggiato un caffè così squisito che mi ha lasciato il suo aroma in bocca fino in piazza Cavour. Trascorro il resto della giornata, fino a metà pomeriggio, senza parlare con nessuno, esercitando inconsapevolmente un’igiene necessaria: traduco, mangio, vado in palestra, compro un po’ di arance, mele e il sale che da giorni non ho più in casa. Alle cinque sono da S., che lei chiama "il Giardiniere". E infatti lui mi mostra un volume fotografico dedicato ai giardini di una dimora di Erasmo in Belgio, dicendomi: "Ti risulta che Erasmo fosse gay?". Naturalmente siamo tutt’e due d’accordo sull’assurdità di applicare queste categorie, prodotto di un certo periodo storico, a un contesto che non conosceva quelle categorie. Poi S. si esibisce in una divertita imitazione del proprietario della libreria gay di Milano, quando gli ha risposto, allibito, alla stessa domanda: "Ma come? Non lo sapevi? Certo che era gay!". Anche via Padova è silenziosa oggi e quando esco in terrazzo a controllare che la bicicletta sia al suo posto vedo la strada quasi deserta. Verso le sei arriva D.D.F., che io non conosco ancora, se non attraverso i racconti di S. e D. (Sono tante le persone che io non ho mai visto ma che si sono materializzate nella mia mente grazie ai quadri verbali che me ne fanno loro – specialmente D., che è un abile esecutore di ritratti, anche pungenti, e m’inventa tutte le vite che io non ho, cosicché mi sembra di conoscere più gente di quanto io non conosca in realtà). Come ogni volta che devo incontrare uno sconosciuto, mi sento sempre lievemente agitato o imbarazzato e non mi basta mai uno sforzo di volontà per scuotermi di dosso questa atavica timidezza, questo timore di essere giudicato (male). Quando lo vedo, però, mi tranquillizzo e la mia sottile inquietudine svanisce. Lo sento parlare e mi sta istintivamente simpatico. Io non so mai chi, tra la gente che mi capita di incontrare, sia il fingitore (o se magari sia io il fingitore, invece), ma spesso me lo chiedo, però sospendo il giudizio quando, come oggi, mi sento a mio agio. Due giorni nient’affatto speciali, se non per il senso di serenità con cui li ho vissuti. La accetto come un dono, come una grazia, come una specie di oblio. In fondo mi basta poco per provare un'assurda felicità...
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