Da tempo mi sono ripromesso di scrivere qualcosa su Leonard Cohen – che compie in questi giorni settant’anni – ma so che i tempi non sono ancora maturi. Qualche anno fa accompagnò in modo ossessivo le mie solitudini e, quando lo ascoltavo, mi rigiravo le sue parole in bocca e le ripetevo alla ricerca di un significato che avrebbe dato nuova luce alla mia esperienza. Lo citavo in continuazione, anche a gente che mi guardava storto e non capiva perché io amassi quell’uomo che suonava la chitarra e cantava con la sua voce profonda e monocorde. Non intendo qui elencare le canzoni di Cohen che più mi hanno scosso, mi limito ad accennare al fatto che molte funzionano come medicine omeopatiche su certi miei stati d’animo. Quando sono molto abbattuto (estremamente abbattuto, dovrei dire), ascolto le canzoni più cupe di Cohen (Dress rehearsal rag, per citarne solo una) e riacquisto un po’ di tranquillità.
C’è un brano di Leonard Cohen del 1969, di cui vorrei scrivere ora un paio di cose. Si tratta di A bunch of lonesome heroes e non è, probabilmente, nemmeno una delle sue canzoni più belle o più famose. Però crea un quadro molto evocativo, in cui io avverto una profonda esigenza che è anche mia. Di che cosa parla A bunch of lonesome heroes? Immaginiamoci un manipolo di eroi “molto solitari e molto litigiosi” fermi lungo una strada, a fumare. E’ notte e su ognuno di loro grava un peso. Il peso delle loro storie. Ma sono in silenzio: sono massa indistinta, sono materiale umano senza voce. Tuttavia, a un certo punto, da questo gruppo esce un uomo che fa sentire la sua protesta, un individuo che reclama l’attenzione su di sé perché sa che deve dire la sua storia. Un uomo che vuole affermare il suo io. Perché solo raccontandosi potrà acquistare consistenza e dignità e non essere più ridotto a una “cosa”. “ ‘I'd like to tell my story,’ / said one of them so young and bold, / ‘I'd like to tell my story, / before I turn into gold.’ ”. Quando arriva il suo turno, quando l’uomo cerca di parlare, la musica lo accompagna in crescendo e la voce di Leonard Cohen s’impenna. Nell’impennarsi della voce io avverto tutta l’ira e la disperazione di chi cerca di parlare di sé senza trovare ascolto, senza trovare consolazione. Nessuno, infatti, sta ad ascoltarlo (“But no one really could hear him, / The night so dark and thick and green”) . L’individuo, solitario, è destinato a fallire e l’eroe a “tramutarsi in oro”. Una medaglia al valore, magari, ma non più un individuo in carne e ossa, con le sue speranze, con il suo passato, con i suoi errori. Il suo canto – e ora la voce di Cohen diventa rassegnata – è destinato a tutti e a nessuno: “I sing this for the crickets, / I sing this for the army, / I sing this for your children / and for all who do not need me”. La canzone, ha fatto notare qualcuno, sembra non concludersi veramente e in effetti è vero: a differenza di altre composizioni di Leonard Cohen che narrano una vera e propria storia perfettamente chiusa (con tanto di saluti finali, come in Famous Blue Raincoat), qui le note finali sfumano e lasciano nell’ascoltatore un senso di acuta insoddisfazione. Credo di non avere mai ascoltato una canzone tanto pessimista, ma che al tempo stesso tracci in modo così lucido il naufragio di una speranza. Una speranza che è umanissima: quella dell’individuo che aspira a essere tale e per farlo alza la sua voce contro chi invece lo vorrebbe massa inerte.
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