Ero arrivato in quella cittadina a pochi chilometri da Dortmund con una bronchite e il nome di O. in tasca, la ragazza che avevo conosciuto a Bonn e che era stata invece destinata alla città vera e propria. La bronchite la curai in qualche modo, trascinandomi l’asma per qualche mese, fino all’inizio del 1997, quando feci le valigie e mi trasferii a Dortmund. O., invece, mi fece subito un regalo. Un giorno suonò il campanello della mia porta al settimo piano di Bergenkamp 14 dove abitavo. Aprii distrutto, disfatto, con la barba incolta: era lei che aveva sfidato l’ignoto per venirmi a trovare, nonostante ci fossimo visti per pochi giorni nella “città sede provvisoria del governo della Repubblica Federale”. Se non mi innamorai – e ci mancò poco – è perché a quei tempi il mio cervello galleggiava in una brodaglia che si chiamava voglia estrema di cazzo. E lei il cazzo non l’aveva.
Da quel momento non smettemmo di frequentarci, ogni giorno: in carne e ossa e per telefono. Eravamo spesso l’uno la stampella dell’altro e viceversa quando le durezze in terra germanica ferivano le nostre tenere carni latine. Eppure tra di noi si parlava solo tedesco: non era un vezzo o un vano sfoggio di competenza linguistica, ma il sintomo di quella specie di malattia mentale che colpisce i germanisti, prima o poi. O. era bella, era bòna, l’avrebbero voluta in tanti. Io osservavo divertito gli sguardi assatanati dei maschi che le ronzavano intorno e, ogni tanto, le chiedevo scherzosamente di prestarmene uno. Perché più di uno piaceva a me: c’era il timido inglesino cui lei avrebbe potuto – se avesse voluto – fare da nave scuola; c’era l’alternativo tedesco, fintamente sciatto e fintamente intellettuale, temo; c’era il tedeschino biondo e impeccabilmente elegante che sotto sotto le faceva capire che l’avrebbe voluta tutta infighettata; c’era l’uomo sposato che non avrebbe esitato a tradire con lei la moglie che pure abitava in un’altra città; e poi c’erano i turchi a cui brillavano gli occhi quando la vedevano – lei, bella italiana pallida ma dai lineamenti e dalla capigliatura così mediterranea. Lei qualche volta avrebbe voluto, ma si negava regalmente a tutti. Sei come una ragazza turca, le dicevo. E loro a me chiedevano sfrontati se la mia amica era libera, perché era evidente – l’avevo scritto in faccia – che uno come me non poteva scoparsi una donna così, e che, anzi, non poteva scoparsi una donna. Ridevamo molto, a quei tempi. Camminavamo molto, a quei tempi. Lei mi prendeva sottobraccio e camminavamo così, come due fidanzatini, e io ridendo le dicevo che mi rovinava la reputazione, perché metti che in quel momento avessi incontrato l’uomo della mia vita che figura ci facevo? Lei rideva, ma insisteva a prendermi sottobraccio, toccarmi e abbracciarmi. Mi sento uno stupido per non avere saputo apprezzare allora quello che talvolta, ora, cerco disperatamente. Lei mi parlava del fidanzato lasciato in Italia – una storia già morta: io lo sapevo e lei no – e mi dipingeva le sue speranze. Parlavamo di futuro e andavamo in qualche bar: i soliti della zona. Io mi esercitavo a produrre in anticipo la nostalgia che avrei provato in futuro quando fossimo tornati entrambi in Italia. Io scrivevo, scrivevo, scrivevo: per impedirmi di dimenticare e per dare un senso a quello che facevo o riempire giornate a volte troppo vuote.
Lei aveva trovato una minuscola stanza in affitto, con doccia e angolo cottura. Il cesso l’aveva sul pianerottolo. Quando ancora non avevo lasciato la cittadina, andavo qualche volta a dormire da lei. Dormivamo abbracciati, non perché volevo sedurla, ma perché il letto era troppo piccolo per dormire in altro modo. Era così scomodo e incurvato che poi finii per dormire per terra, sulla moquette nuda. Mi lamentavo di una fitta al costato e lei mi diceva: “Il costato? Ma sei Gesù Cristo?”. Mangiavamo spesso insieme e, quando finii per condividere un appartamento con altri due, lei era spesso là: non m’invidiava i coinquilini, ma la mia stanza più grande e il bagno in casa, quelli sì. Conosceva gente strana, come il russo ebreo dell’Ucraina con cui praticava il russo e che raccontava, in un tedesco smozzicato, barzellette incomprensibili. E poi viaggiava, a trovare certi parenti alla lontana che aveva disseminati in tutto il Bacino della Ruhr e anche oltre. La presi in giro quando scoprì di avere parenti anche a Dresda. E quando lei era via, io andavo ad Amsterdam: a esercitare la lingua, a comprare romanzi di misconosciuti autori olandesi e a trombare, non altro desideravo dall’Olanda, allora.
Di Dortmund ricordo ben poco: non mi ha segnato come Berlino, e dopo essere rientrato in Italia, nel novantasette, non l’ho più visitata. Ricordo la struttura a croce del centro, con la via pedonale principale, ampia e anonima come in molte città della Germania occidentale, con gli stessi negozi ovunque, affollata nei fine settimana e prima delle feste di natale: strada che si divideva in Westenhellweg e in Ostenhellweg. Ricordo il solito vento invernale, ricordo il cambio delle stagioni, ricordo le giornate miti quando arrivò la primavera. Ma non è di questo che voglio parlare.
Ci siamo sentiti e rivisti spesso, poi. Ancora adesso ci sentiamo, di tanto in tanto, per telefono, ma il distacco c’è stato. L’anno scorso s’è sposata e io, rinnegando una promessa che avevo fatto a me stesso, sono andato nella chiesa dove si è celebrato il matrimonio e dopo, abbracciandola, le ho detto che dovevo volerle molto bene per aver fatto una cosa del genere. Ho visto il modo subdolo in cui i sacerdoti s’insinuano nella vita privata della gente, la maniera in cui cercano di appropriarsi di un’esperienza intima com’è l’innamoramento, la tecnica melliflua con cui subordinano gli uomini al divino o al presunto tale e li incatenano. E ho provato ribrezzo. Se mi sono commosso, non era per la cerimonia religiosa, che contava niente, meno di niente, ma perché in quel momento celebravo un lutto. Era morto qualcosa di me, di un me che ero stato e che da quell'istante non sarei stato più.
Il passato mi si stacca di dosso come strati successivi di pelle. Senza anestesia.