Nell'ambito della settimana dedicata alla cultura tedesca che è attualmente in corso a Milano, ieri sera si è tenuta una sorta di "tavola rotonda" alla Feltrinelli di piazza Cavour. Tema dell'incontro erano i reciproci pregiudizi tra italiani e tedeschi e presenti erano Vanna Vannuccini e Francesca Predazzi, autrici di Piccolo viaggio nell'anima tedesca (che non ho ancora letto), il giallista tedesco (ma residente da anni a Trieste) Veit Heinichen e il giornalista Erich Kusch, corrispondente a Roma per varie testate tedesche. Di necessità questi incontri sfiorano sempre la superficie dei problemi che sollevano e per chi abbia un po' di esperienza (diretta o di studio) della Germania non aggiungono molto a ciò che già sa.
Il libro delle due giornaliste prende le mosse da una serie di parole tedesche che sono considerate intraducibili in altre lingue, perché così specificamente tedesche da essere rivelatrici di un sistema di pensiero che non ha un esatto equivalente altrove. La lingua è sempre il riflesso del modo in cui un popolo organizza la sua vita e il suo pensiero, ma il tedesco ha peculiarità tutte sue. Si accennava, per esempio, al termine Schadenfreude (gioia per il dolore altrui, specie se l'altro è persona di potere o di successo) - che, però, mi viene da aggiungere ha una traduzione pressoché perfetta nel nederlandese "leedvermaak" - o a termini come Weltanschauung, Querdenker, Zweisamkeit (che a me piacerebbe tradurre "claustrofilia", anche se si perde l'immagine della coppia). Il tedesco, affermano le autrici, ha una grande precisione ma, nel momento in cui precisa i suoi concetti, li raffina e li fa diventare sempre più sottili e astratti (la stessa parola tedesca per "concetto", Begriff, è infatti di uso molto più frequente in tedesco che non il corrispettivo italiano). In questa capacità di creare astrazioni di pensiero, io trovo che il tedesco diventi quasi architettura o matematica. Se si prende una frase in tedesco e la si scompone, non si potrà che restare ammirati per la solidità dei legami interni che la reggono: non è una lingua facile da maltrattare e, maneggiandola male, si rischia veramente di scivolare e non riprendersi più. Se l'inglese sopporta abbastanza bene anche una certa dose di sciatteria linguistica, nel tedesco ogni elemento fuori posto minaccia di far saltare la bellezza della sua architettura interna. Ecco perché quando un autore tedesco scrive male, il suo scrivere "male" è molto, ma molto più irritante dello scrivere male di un autore, anche dozzinale, americano, per esempio. E se lo stile è perfetto - esatto, limpido e con una struttura forte - è veramente difficile districarlo e riprodurlo in una lingua come l'italiano (ma immagino valga anche per altre lingue neolatine come il castigliano): mi è capitato leggendo gli ultimi saggi di Christoph Hein, in cui la tessitura linguistica raggiunge a volte certi vertici di raffinatezza che danno vertigini di piacere intellettuale a chi legge, ma qualche grattacapo a chi tentasse di tradurli, anche solo per gioco, cercando di trasportarne in italiano la grande coerenza interna.
Dal canto mio ho sempre sostenuto - ma non sono l'unico: tanti sono i germanisti d'accordo con questa affermazione - che il tedesco è più "facile" dell'inglese. Naturalmente bisogna intendersi su che cosa significhi "facile". L'inglese offre l'illusione consolatoria di essere una lingua immediatamente spendibile sul campo: basta poco sforzo per apprendere un Basic English che serva per farsi capire nelle circostanze della vita quotidiana. Il problema sorge quando chi si è impossessato dei rudimenti della lingua inglese ritiene ipso facto di "conoscere l'inglese", e così lo liquida sostenendo: "Ah, è una lingua facile, dài". In realtà l'inglese ha complessità inaudite: la sua grammatica non conosce le grandi strutture architettoniche del tedesco. Basti aprire un manuale di grammatica, anche didattico, come il Thomson & Martinet o l'Alexander, e ci si accorgerà che sono più le eccezioni o le regole dettate dalla prassi che non la pura teorizzazione. Poi il puro e semplice dato di fatto che l'inglese è madrelingua di popoli ormai tanto distanti, lo rende lessicalmente così vario e ricco che liquidarlo con un'alzata di spalle è segno di somma superficialità. Il tedesco, invece, dà delle certezze e questo, per gli animi inquieti, è un grande sollievo. Inoltre, a differenza dell'inglese, è quasi impossibile parlarlo decentemente se non si sono imparati almeno i generi dei sostantivi, le declinazioni e la corretta posizione dei verbi nelle frasi reggenti e subordinate. (Poi, mi verrebbe da dire, ci sono lingue che uniscono la sontuosa architettura grammaticale del tedesco e l'anarchia dell'inglese, come il russo, una lingua splendida ed estremamente melodiosa, ma adatta soprattutto a chi ama soffrire).
Anch'io sono sempre rimasto incantato da certe creazioni lessicali del tedesco. Ieri sera si accennava per esempio a Gastarbeiter - l'immigrato (italiano, portoghese, turco o yugoslavo) che negli anni sessanta si era trasferito in Germania per lavorare. Vannuccini diceva che all'inizio lei pensava che si trattasse di un eufemismo politically correct (Gastarbeiter significa letteralmente "lavoratore ospite"), salvo poi scoprire che non lo era, ma era semplicemente un desiderio di precisione, piuttosto crudele in questo caso: i lavoratori erano ospiti nel senso che si auspicava che, prima o poi, se ne sarebbero tornati a casa loro, dopo essere stati spremuti ben bene. Trovo ugualmente una certa crudeltà (o, per meglio dire, un'esattezza che si spinge fino ai confini della crudeltà) in una parola come Lebensabschnittgefährte di cui ho appreso solo ieri l'esistenza, leggendo il weblog di Stadtschaft (e ho poi ritrovato sfogliando anche Piccolo viaggio nell'anima tedesca). Se Lebensgefährte è il partner, il compagno con cui si condivide la vita, il Lebensabschnittgefährte è il compagno con cui si condivide una porzione di vita, perché "del domani non c'è certezza". Mi affascina e m'impaurisce che il tedesco si premuri di sottolinearlo e formalizzarlo con una parola apposita e distinta dall'altra. (E a questo riguardo mi viene in mente un'altra crudeltà linguistica: Torschlusspanik, il panico da chiusura del portone, ovvero il panico di cui cadrebbero preda soprattutto le donne che, giunte a una certa età, non si sono ancora né maritate né fidanzate).
Naturalmente, il discorso poi, durante l'incontro di ieri sera, è passato dall'ambito linguistico - appena sfiorato - a quello aneddottico, soprattutto grazie a Veit Heinichen che ha raccontato la sua esperienza di "cittadino di frontiera", ossia di tedesco nato e cresciuto in un punto della Germania che si affaccia su due confini, quello svizzero e quello francese, e trasferitosi durante la sua esistenza, di volta in volta, a Zurigo, a Parigi e infine a Trieste. Scelta, quest'ultima, dettata proprio dal fatto che la città giuliana è al crocevia di più confini, in cui non mancano occasioni di studiare giudizi e pregiudizi. Tra le varie osservazioni di Heinichen ce n'è stata una piuttosto interessante riguardo all'atteggiamento di molti italiani, consistente soprattutto nello sminuire di continuo le proprie capacità: è un modo (un fantasma, lo ha definito lui) dietro il quale gli italiani amano nascondersi. Perciò: se le cose non funzionano, be' si sa, siamo in Italia ed è ovvio che sia così, mentre invece se funzionano, il merito è doppio, perché è come una sorpresa che si traduce in realtà. Il discorso sarebbe invece ribaltato in Germania: doppia delusione quando le cose non funzionano! (Per inciso, a volte capita davvero che certe cose funzionino: M.S. ha chiamato stamattina il centro unico di prenotazioni visite della Regione Lombardia per prenotare una visita specialistica in una struttura pubblica e gli è stato dato appuntamento per... domani mattina. Quindi non è vero che i tempi della sanità pubblica sono sempre biblici! Questo alla faccia di chi vorrebbe smantellare il sistema sanitario nazionale e darlo in pasto ai privati, in base a quella che è un'ideologia totalitaria come tante altre.) La settimana della cultura tedesca proseguirà comunque con altri incontri, per esempio stasera alla Feltrinelli in piazza Piemonte ancora con Veit Heinichen, che stavolta presenta il suo nuovo romanzo, che non conosco, anche se ho letto il precedente Die Toten vom Karst (I morti del Carso), appartenente a quella schiera di romanzi gialli che ambiscono a essere anche indagine nel corpo sociale di una città e non si limitano al gioco di ricostruzione logica di un delitto e di ricerca del colpevole. Domenica, ai Magazzini Generali, ci sarà il concerto dei To Rococo Rot, ma temo che non potrò assistervi. Se qualcuno ci va, mi racconta?
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