Che cosa vediamo quando vediamo un altro essere umano? Probabilmente vediamo una delle etichette che gli sono state appiccicate addosso, vediamo una delle categorie in cui è stato incasellato oppure in cui lui stesso, a forza d’abitudine, si è rassegnato a infilarsi e insediarsi. Del resto non gli rimane e non ci rimane altro da fare: se i limiti del nostro mondo sono i limiti del nostro linguaggio, come diceva il filosofo, è altrettanto vero che, spesso, è il nostro linguaggio a determinare i limiti della nostra esperienza e la nostra percezione della realtà. E non dico nulla di nuovo: ogni gruppo sociale segmenta la realtà come meglio crede, poi questa segmentazione sedimenta nella storia e nell’inconscio collettivo e individuale, e alla fluidità degli individui si sostituisce la rigidità delle categorie, finché qualcuno finisce per credere che quelle categorie siano tutta la realtà e non si dia realtà al di fuori di esse. Non c’è rimedio, perché nessuno resisterebbe al caos, che è libertà totale: ognuno ha bisogno di darsi almeno l’illusione della forma. Alcune categorie sono per noi assodate e scontate: omosessuali ed eterosessuali, per esempio. Sembra quasi impossibile sottrarvisi e fare distinzioni, perché sono molti i gay che, per primi, si rifiutano di farlo, ma ormai anche gli eterosessuali – che prima “esistevano” solo in maniera speculare agli omosessuali nel discorso medico o sociologico – hanno accettato di usare questa definizione per se stessi. Il dolore dell’esclusione e della discriminazione che si trasforma in ribellione e prassi politiche è tenace ed è anche giustificato, in un dato frangente storico: ciò nondimeno io mi aspetto il superamento di certe divisioni e l’indifferenziazione delle tendenze affettive, erotiche e sessuali. Altre categorie, invece, sono diventate sempre più labili e sono ormai una decorazione che non sposta di molto le questioni essenziali. Io mi auguro, per esempio, che la religione perda sempre più importanza e peso nelle nostre vite. Dubito che scomparirà del tutto, perché nella nostra debolezza cercheremo sempre una compensazione psicologica e cognitiva per le nostre mancanze e, per molti, il ricorso a un’autorità “morale” trascendente pare indispensabile. Tuttavia la religione di appartenenza non è la prima categoria in cui infiliamo una persona non appena la conosciamo e la sua fede, se ne ha una, non è il primo aspetto che sottolineiamo quando dobbiamo descriverla (benché, con i tempi che viviamo, da questo punto di vista stiamo rischiando una regressione). Su queste faccende rifletto da un po’ di tempo, involontariamente stimolato dal libro che sto traducendo. Un libro di scarso valore letterario e, a dire il vero, anche di moderato valore documentario. Tuttavia presenta un aspetto che, alla lunga, ha finito per colpirmi prima e per infastidirmi poi, tanto da spingermi a interrogarmi sulla ragione di questo fastidio. L’autrice è una donna irachena, fuggita qualche anno fa dall’Iraq e rifugiatasi in Germania; il libro è la storia della sua vita in Iraq. E’ istruita, poliglotta sin dall’infanzia (parla curdo, arabo e aramaico) e proviene da un contesto urbano, ha compiuto studi superiori a Baghdad: non si tratta, insomma, di una semianalfabeta. Quello che colpisce, in tutto il libro, è il fatto che costantemente, quando viene presentato qualcuno o quando, semplicemente, si parla di un’altra persona, ne viene sottolineata la fede religiosa o l’etnia. Tizio è cristiano, Caio è musulmano, Sempronio è curdo. Non soltanto quando il discorso è pertinente al fatto religioso, ma proprio perché l’appartenenza etnico-religiosa è vista come elemento fondante della categorizzazione degli individui. Il suo fidanzamento è avvertito come un problema di difficile risoluzione perché lei è cristiana cattolica, mentre il fidanzato è cattolico ortodosso. E passi ancora, ma l’autrice arriva a scrivere, per esempio, che si è fatta fare alcuni monili da un “gioielliere cristiano”. Le definizioni finiscono quindi per ingabbiare gli individui, li costringono a indossare la maschera già pronta per loro, anche quando non vorrebbero, finché quella maschera finisce per fondersi con il loro volto, tanto che i due elementi diventano indistinguibili. (E il fatto che la donna si rivolga a un “gioielliere cristiano” mi lascia perplesso né più né meno di chi, per dire, cerca un “idraulico gay”. Non è un esempio tanto campato per aria, perché so che, soprattutto negli Usa, vi sono prestatori di servizi gay per la comunità gay). Leggendo questa testimonianza da una civiltà abbastanza distante dalla nostra, in cui sono essenziali etichette che per noi non lo sono più, mi accorgo di quanto in realtà siano “inessenziali” certe categorie – anche quelle che per noi sono scontate, perché costituiscono un po’ il liquido amniotico in cui galleggiamo. Bisognerebbe compiere uno sforzo e cercare di pensare se stessi (e gli altri) prima o dopo l’esistenza di tali categorie.
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