Quando rientro a casa la notte – magari dopo le due e mezzo, come ieri o come stanotte – mi sembra di lasciarmi alle spalle le insulsaggini del mondo, tutta l’umanità che si è impressa per qualche attimo sulla mia retina senza lasciare tracce durature (e mi domando spesso l’effetto che alla lunga fa al cervello di un uomo questa sfilata incessante di esseri umani indifferenti a cui lo sottopone la vita urbana). Nel momento stesso in cui entro in casa, accendo la luce e chiudo la porta, io escludo il mondo. Sono io e lo sono ancora di più quando sono solo in casa. Ritrovo me stesso, la mia coscienza – un termine questo che non vorrei venisse inteso in senso etico –, e ritorno a dire “io”. Mi sottraggo al rumore, assaporo la parvenza di silenzio che offre una città come Milano, di notte, in una zona densamente popolata. Nella testa ho soltanto un sordo ronzio, relitto sonoro della giornata appena trascorsa. Rivivo in me, rientro nel mio bozzolo, mi acquatto nel mio angolo. E’ solo allora che recupero le forze e l’energia per andare avanti. Resto seduto al tavolo in cucina, se non è troppo tardi leggo qualche pagina (se sono solo mi corico e leggo a letto, in uno spazio della casa che mi accoglie come un antro o come un utero, da cui sbircio all’esterno come da uno spiraglio). Talvolta bevo un bicchiere di latte, mangio due biscotti. Non so come farei se non avessi questi momenti di totale solitudine o se non potessi calarmi in questo silenzio. E’ un bisogno radicato: sin da piccolo ho sempre avuto un disperato bisogno di solitudine, che è stata la mia condanna e la mia benedizione. Mi ha temprato, per certi versi, ma per altri mi ha reso più acutamente consapevole delle mie mancanze e della mia fragilità (che è mia non perché io vanti una delicatezza in più rispetto agli altri, ma perché in questa fragilità e in questa solitudine io mi riconosco umano come gli altri umani). Chi entra in questa solitudine è un eletto.
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